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Il Paese delle pietre

Marco Di Marco
Marco Di Marco

Organizzatore culturale nel campo dell’ecologia, è direttore tecnico del Centro di Etica Ambientale di Bergamo e segretario dell’Associazione “Etica, Sviluppo, Ambiente – Adriano Olivetti”. Socio fondatore dell’Associazione “Argonauti Explorers”

Dalla “fossa profonda” …

Il monastero di Khor Virap è luogo emblematico nella costruzione dell’identità culturale del popolo armeno. Narra la tradizione che qui re Tiridate III fece gettare in un sotterraneo (la “fossa profonda” o “Khor Virap”, appunto) quel Gregorio, predicatore cristiano che sarebbe diventato col nome di “Illuminatore” il santo fondatore della Chiesa armena. Nella fossa Gregorio sarebbe rimasto ben tredici anni, fino a quando – così narra la leggenda – Tiridate non si convinse a liberarlo per essere guarito da una terribile e deturpante malattia e per questo convertirsi con tutto il suo popolo al cristianesimo. Correva il IV secolo d.C., qualche anno prima dell’Editto di Costantino, e questa circostanza fece dell’Armenia la prima nazione cristiana della storia.

Visitare questo antichissimo tempio fortificato e calarsi attraverso una ripida scaletta nella “fossa profonda” ha quindi, per il viaggiatore che si accosta per la prima volta all’Armenia, un significato simbolico, quasi di iniziazione alla storia tormentata di questo popolo.

Come simbolica è anche la collocazione del complesso religioso, a pochi km dal confine turco, sovrastato in lontananza dalla mole gigantesca del monte Ararat, emblema della grande Armenia di un tempo. Per un attimo la sua calotta innevata sembra essere a portata di mano e l’impressione si accentua nell’effetto ravvicinante del teleobiettivo, che nella foto lo fa incombere sul primo piano – una collinetta sormontata dalla sagoma del monastero. Poi un brusco ritorno alla realtà dice a te e, molto crudelmente, agli armeni che quella terra è ormai un’altra terra, è Turchia.

… alla “collina delle rondini”

Un tratto di linea retta lungo una quarantina di km in direzione nord-ovest ci trasporta idealmente su una collina prossima al centro di Yerevan, la capitale di questa piccola Armenia moderna. Siamo sullo Tsitsernakaberd (la “collina delle rondini”) dove mezzo secolo fa fu eretto il memoriale dedicato alle vittime (un milione e mezzo) del genocidio perpetrato dal governo turco contro il popolo armeno nel 1915. Nelle sale del museo ne abbiamo ripercorso le tappe attraverso la testimonianza dolorosa di immagini e testi: dai primi pogrom alla fine dell’Ottocento, per arrivare alla strage degli intellettuali e infine alla tragica marcia di migliaia e migliaia di persone – uomini, donne e bambini – che ebbe termine con l’arrivo di pochi superstiti a Deir ez-Zor, nel deserto siriaco.

Monastero di Khor Virap con veduta del Monte Ararat. Foto di Marco Di Giorgi

Una volta ritornati alla luce, cercando in cuor nostro una risposta – e non la troviamo – ci accorgiamo che anche qui l’Ararat la fa da padrone all’orizzonte: una presenza che esprime in maniera potente la condizione di straniamento dalle proprie radici di un intero popolo. Condizione suggerita anche dal circolo di dodici lastre di pietra inclinate verso l’interno che sorgono, a racchiudere una fiamma perenne, sull’ampia spianata del Memoriale: dodici, come le regioni perdute dell’Armenia storica.

Una posizione scomoda …

E grande l’Armenia storica la era davvero. Oltre a buona parte dell’attuale Turchia, comprendeva parti di Azerbaigian, Georgia, Iran e Siria. Molto più dell’Armenia attuale, la cui superficie, poco più che il Piemonte, ospita appena tre dei nove milioni di armeni sparsi per il mondo.,

Una storia antica, la sua, che possiamo far risalire all’antico Urartu, nei primi secoli dell’ultimo millennio prima di Cristo. Il nome “Armenia” compare per la prima volta, nella forma dell’antico-persiano “Harminya”, sulla famosa iscrizione rupestre di Dario I a Behistun intorno al 520 a.C. Fu forse in quel periodo che genti di ceppo indo-europeo, giunsero dalla Frigia, con una singolare migrazione da ovest ad est, a mescolarsi con gli Urartei. Questo è il racconto di Erodoto, anche se una teoria diversa suggerisce che gli armeni siano nativi dello stesso Altopiano Armeno che, secondo quest’ipotesi, sarebbe addirittura il luogo d’origine delle popolazioni Proto-Indo-Europee.

Una storia che alterna periodi di indipendenza e di grandezza a lunghe fasi di soggezione ad altri popoli: assiri, persiani, macedoni, romani, arabi, mongoli, turchi e russi. Una continua alternanza in cui gioca un ruolo fondamentale la posizione dell’Armenia e del mondo caucasico, a un tempo cerniera e linea di faglia tra civiltà diverse e rivali: prima tra nomadi delle steppe e civiltà stanziali della “Fertile Mezzaluna”, poi tra mondo romano e mondo iranico, e successivamente tra islam e cristianità – e anche, all’interno del mondo islamico, tra sciiti iraniani e sunniti turchi – per arrivare infine al conflitto secolare tra Russia e Persia, e tra Russia e Turchia.

In tale contesto, la conversione al Cristianesimo e la successiva scelta della Chiesa armena di proseguire su basi teologiche un suo cammino specifico segnarono per sempre la storia di questo popolo dandogli una forte identità culturale che gli permise di sopravvivere per quasi due millenni alle spinte potentemente assimilatrici delle varie culture e civiltà in lotta e competizione sul suo territorio.

… lungo la Via della Seta

E non soltanto di sopravvivere. Perché il popolo armeno, anziché arroccarsi in una difesa rigida della propria identità, orgogliosa certo ma senza prospettive, seppe con intelligenza sfruttare la sua posizione ritagliandosi un ruolo di mediazione tra Oriente e Occidente. Mediazione commerciale ed anche culturale, perché attraverso i commerci le diverse civiltà entrano in comunicazione contaminandosi reciprocamente. Una “vocazione” che ha caratterizzato anche la diaspora seguita al tentativo turco di sterminio, tanto da essere ormai associata all’identità armena nell’immaginario delle nostre società occidentali.

Caravanserraglio al Passo Selim. Foto di Marco Di Marco

Questo ruolo fu rafforzato dal fatto che l’Armenia sia stata per secoli passaggio obbligato e tappa fondamentale lungo la favolosa Via della Seta. Ai piedi dell’Ararat convergevano infatti, attraverso i diversi rami di questo intreccio di carovaniere, i flussi di uomini e merci tra Persia, Impero Bizantino, Georgia, Caspio orientale ed Asia centrale. Ne sono testimonianza i resti, numerosi, dei caravanserragli costruiti nel medioevo per offrire riparo notturno alle carovane.

Come quello che incontriamo ai 2400 m di quota del passo Selim lungo la strada che segue il tracciato dell’antica pista tra il sud del paese e il lago Sevan. Il Selim Caravansaray (XIV secolo) è il meglio conservato ed entrarvi, dopo aver superato il massiccio portale in blocchi di basalto, dà un’idea molto suggestiva del modo in cui erano organizzate le tappe dei mercanti nei loro lunghi spostamenti lungo le rotte dell’Asia. Ci accoglie una vasta galleria suddivisa in tre spazi: la navata centrale per gli animali – cammelli, asini e cavalli – a lato le nicchie per gli uomini e in mezzo, lungo le colonne, le mangiatoie. E poi, a dare il senso del rapporto tra gli armeni ed i loro dominatori, l’iscrizione sull’architrave dell’ingresso, in cui il principe Orbelian rivendica a sé il merito di aver costruito il rifugio, rendendo allo stesso tempo omaggio al suo signore Ilkhan mongolo della Persia, il gengiskhanide Abu Said.

Le “chiese di cristallo”

Il viaggio in Armenia è scandito quasi tutti i giorni da visite a chiese e monasteri. Sono le “chiese di cristallo”, come le chiamò lo storico e critico d’arte Cesare Brandi in un articolo pubblicato nel 1968 per esprimerne in maniera suggestiva la particolare forma e struttura, simile a quella di un cristallo di rocca. Dall’esterno infatti appaiono come un insieme di blocchi (cerchi, cilindri, piramidi, coni) assemblato ed armonizzato secondo logiche geometrico-matematiche e quasi sempre culminante nel caratteristico cono posto a sormontare la cuspide della cupola.

Si trovano spesso in luoghi impervi, isolati e addirittura nascosti, ma talvolta sono al centro di complessi monastici che, con le loro foresterie, i refettori, le biblioteche e le sale per lo studio testimoniano la loro funzione per secoli insostituibile di centri in cui fu capillarmente conservata e rinnovata l’identità culturale del popolo armeno. Ed anche di centri di formazione e diffusione della cultura. Un ruolo fondamentale, in questa opera grandiosa, quello svolto dalle chiese e dai monasteri, la cui esperienza storica ci appare più vicina all’”ora et labora” del monachesimo occidentale – si pensi ai monaci celti – che alla dimensione contemplativa del monachesimo orientale.

Non è forse un caso che, con il loro aspetto semplice, con gli interni severi e disadorni, privi quasi sempre di immagini (cui si accede attraverso il gavit, una vasta anticamera con la volta sorretta da quattro colonne, che si prestava ad essere utilizzata per assemblee, lezioni, udienze di tribunale) le chiese armene sorprendano la maggior parte dei visitatori che – ignari delle specificità di questa declinazione del cristianesimo – si attendevano qualcosa di simile alle chiese bizantine con i loro affreschi e i loro mosaici. E si trovano, invece, in ambienti che rimandano alla semplicità, densa di interiorità spirituale, delle chiese romaniche.

Le chiese armene, per usare la felice espressione di Adriano Alpago Novello (architetto che dedicò una vita intera allo studio dell’Armenia), sono in “dialogo” con il territorio. Quasi mai costruite in posizione dominante, si adattano ai caratteri morfologici locali e ricavano dalle rocce vulcaniche della regione, in particolare dal tufo, il loro materiale costruttivo. In una regione in cui sono frequenti i menhir preistorici e si è sviluppata successivamente la cultura dei katchkar (le stele con croce che sono un emblema dell’arte cristiana armena), le chiese appaiono anch’esse quasi dei monoliti confitti nel suolo, a simboleggiare il radicamento del popolo armeno alla sua terra.

Monastero di Noravank. Foto di Marco Di Marco

Pubblicato sulla rivista FRONTIERE – SHANTHI nel 2011 in un Dossier dedicato all’Armenia

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