Viaggio a Erevan
Arriviamo in Armenia da Tbilisi, dopo aver passato 10 giorni in Georgia. I collegamenti non sono il massimo per cui affittiamo una macchina con autista a prezzi modici e partiamo.
Per arrivare alla frontiera ci sono circa 70km, di case brutte di periferia prima e di landa desolata poi. La frontiera è una di quelle tranquille, con poca tensione e pochi apparati di sicurezza, come quella che c’è tra due paesi amici.
L’agente addetto al controllo passaporti cerca il timbro di entrata e dopo un po’ interrompo la sua ricerca dicendogli che sono entrato con la carta d’identità; non so se mi abbia effettivamente capito ma mi dice “ah ok” e mi stampa l’uscita. Arrivederci Georgia. I soliti pochi km in terra di nessuno e anche la frontiera armena viene passata senza nessun assillo e difficoltà, solo un’altra macchia di inchiostro sul passaporto. Ora i cartelli stradali sono diversi, l’alfabeto armeno è diverso da quello georgiano, qualcuno dotato di grande spirito d’osservazione ci fa caso che le lettere sono diverse, la stragrande maggioranza invece relega entrambi nella categoria alfabeti ghirigori dove le differenze non si notano nemmeno. A me piace decifrare ma i giorni sono pochi e più di qualche lettera non la imparerò.
Il viaggio lo facciamo nella vecchia Mercedes di Gosha con cui non abbiamo una lingua comune di collegamento ma incredibilmente riusciamo in qualche modo a comunicare e a dirci un sacco di cose, per esempio che lui ha lavorato in Germania per 20 mesi per una ditta turca che poi non lo pagava più, ha avuto uno scontro fisico col titolare, ha comprato la Mercedes su cui siamo seduti ed è tornato in Georgia con lei passando per Polonia, Ucraina e ottenendo un visto di transito solo per attraversare un pezzo di Russia. Incredibile quante cose si riescono a sapere pur non parlando la stessa lingua, no? Con lui arriviamo fino al Lago Sevan, grande quasi 4 volte il nostro Garda e a 1900m di altezza. Visitiamo il monastero di Sevanavank su un promontorio di una penisola che si affaccia sul lago. Era un’isola prima che Stalin facesse prosciugare il lago abbassandone il livello di 20m. Ora è certamente più accessibile ed è una delle escursioni favorite da Yerevan; ci sono alberghi, ristoranti ed un sacco di venditori ambulanti che sicuramente fanno migliori affari d’estate. Ora c’è un gran vento freddo e il tempo della nostra visita è limitato. Torniamo da Gosha per scoprire che ci ha venduto ad un collega che deve andare a Erevan e se non ci dispiace lui tornerebbe indietro che ha pneumatici lisci ed ha paura che inizi a nevicare a quella considerevole altitudine. Il tutto sempre a gesti e in una parola in una lingua e una in un’altra. Dà al collega il pro-rata che gli spetta e ci saluta e noi, traslate le nostre poche cose da una Mercedes all’altra (anche questa con più di 600mila km sul groppone) ci avviamo verso la capitale Armena e continuiamo a viaggiare accanto ad un unico lunghissimo tubo che senza interruzioni è presente al lato della strada a circa 1 metro di altezza da quando siamo entrati in Armenia. Ogni volta che c’è un ingresso laterale, che sia una fattoria, dei campi o una proprietà privata, il tubo sale, fa una specie di porta da calcio alta 4 o 5 metri, riscende a formare l’altro palo e prosegue con noi dovunque arrivi la strada. Scopriamo che sono i tubi del gas che evidentemente interrarli sarebbe costato troppo. Mi chiedo se siano stati i russi o gli armeni post soviet ad avere questa bella ed estetica pensata. I tubi ci scortano a mo’ di guard-rail fino nella capitale, dove arriviamo a metà pomeriggio in pieno traffico da ora di punta. Alla guest-house dove avevamo pensato di andare non ci risponde nessuno così, senza fretta, andiamo a farci una sim-card armena e ci prendiamo un caffè lì vicino esplorando le possibilità di alloggio nei dintorni. Il secondo tentativo è quello giusto e andiamo al 14th floor hotel, che ha la reception al piano zero e le camere al 14. L’ascensore non ha i tasti per le fermate intermedie. Me lo sono poi chiesto che ci sarà in mezzo rispondendomi che sicuramente c’è un altro ascensore da un altro ingresso che ferma in tutti i piani. Almeno fino al 13.
Facciamo una passeggiata in centro e andiamo a mangiare da Anteb. Provo il Gouvaj, una casseruola con dentro sugo di pomodoro, peperoni e carne di manzo e mi lecco i baffi o meglio, me li bagno col vino armeno di accompagnamento, che non ha nulla da invidiare a quello georgiano, e nemmeno a quello italiano. Se i viaggi precedenti erano tipici da salutisti, con il cibo necessario e niente di più, e niente alcool se non quella birretta occasionale a settimana, questo è molto diverso, per via del buon cibo certo, ma soprattutto perché la bottiglia di rosso a cena non è mai mancata. Questa è terra di vino e ne vanno orgogliosi. Dicono di essere stati i primi a farlo, vantano un ritrovamento di giare adibite alla raccolta del mosto risalenti a 4000 anni prima di Cristo e la lunga esperienza si fa apprezzare per cui ne approfittiamo. Digeriamo l’abbondante mangiata e bevuta con una passeggiata e due partite a bowling dove Giacomino è stracciato in due partite senza possibilità di bella.
Il giorno dopo, fatta colazione al 14mo piano e un po’ delusi perché la scarsa visibilità ci impedisce di vedere il monte Ararat, prendiamo una Marshrutka che qui sono inglobate nella rete ufficiale del trasporto pubblico capitolino, fino alla fermata più vicina al Museo del genocidio armeno, ferita ancora aperta e purulenta in tutti gli armeni del mondo. Il museo è toccante o per meglio dire scioccante. Racconta per mezzo di una cinquantina di pannelli, foto, articoli di giornale e altri documenti, la pianificazione e l’esecuzione di quello che fu il primo genocidio moderno, perpetrato dai nuovi governanti della Turchia, lo stato nato dalle ceneri del collassato Impero Ottomano, ovvero dalla giunta militare divenuta famosa col nome di Giovani Turchi con al comando Kemal Pasha detto Ataturk. Gli Armeni, visti come una minaccia, come non omogenei al progetto di Turchizzazione della penisola anatolica, come uno stato nello stato (dove l’abbiamo già sentite queste parole?) e come alleati dei correligionari russi con cui la Turchia era in guerra, furono deportati in massa verso i deserti della Siria ma in realtà ce ne arrivarono ben pochi perché la maggior parte caddero di stenti o uccisi durante il viaggio. Si calcola che ne morirono 1 milione e 400mila nel solo biennio 1915-16 e le foto dei gruppi sterminati di orfani affamati e scalzi colpiscono l’anima. Sopra il museo, c’è un giardino con alberi piantati da capi di stato il cui paese riconosce storicamente il genocidio e ha per questo contrasti più o meno aperti con la Turchia che invece lo nega con forza. C’è anche la targa accanto all’albero piantato dal nostro presidente della repubblica in carica, Mr Sergio Mattarella.
Scopro che insieme agli armeni furono sterminati anche i Greci del Ponto, una regione a nord est dell’Anatolia abitata da comunità greche da millenni, e nello stesso periodo si parla del genocidio degli Assiri. Io gli Assiri me li ricordo come uomini dalla barba lunga che colloco più o meno tra gli Ittiti e i Sumeri, tra le prime pagine del libro di storia di prima media e non pensavo esistessero ancora e invece il gruppo etnico è sopravvissuto a lungo, almeno finché Ataturk e i suoi hanno tentato di correggere questo anacronismo storico, insomma. In realtà di sopravvissuti ce ne sono ancora, sparsi ai quattro angoli del pianeta a sognare, come i circassi, la terra degli avi.
Vengo anche a conoscenza della “operazione Nemesis”, una missione segreta con cui, tra il 1920 e il 1922 la Federazione Rivoluzionaria Armena colpì quelli che considerava i maggiori responsabili del genocidio e uno dopo l’altro li rintracciò e li assassinò nei luoghi dove si erano rifugiati, da Berlino a Tbilisi e addirittura a Roma, antesignani di quel commando del Mossad che colpì i responsabili della strage di Monaco’72.
Un po’ intontiti da tanto orrore, scendiamo dirigendoci verso quella costruzione ovale che non potevamo non notare giusto ai piedi della collinetta del museo, lo stadio dell’ Ararat Armenia, solo per scoprire che è tutto abbandonato da tempo perché c’è un nuovo stadio ma all’esterno c’è una scultura in bronzo che attrae la nostra attenzione; si tratta del monumento eretto alla squadra, l’Ararat appunto che nel ’73 vinse niente popo’ di meno che il campionato sovietico di calcio, battendo in finale, in rimonta, la Dinamo Kiev. La scultura raffigura tutti i giocatori in tenuta da gioco, come le foto di squadra che si fanno prima di ogni partita importante. Alle loro spalle allenatore e dirigenti, e davanti a loro il trofeo vinto quel lontano giorno del ’73 che deve esser restato a lungo nella memoria degli abitanti di questa lontana provincia dell’impero i cui rappresentanti sportivi volarono a Mosca e tornarono vincitori osannati da una nazione intera.

Andiamo a farci un giro nel grande mercato coperto, strapieno di bancarelle che vendono più che altro spezie e frutta secca. Ogni venditore ci chiama per farci assaggiare albicocche, prugne, ciliegie noci nocciole e non so che altro e dopo 10 minuti e 20 metri fatti sento già che sto per scoppiare e rifiuto cortesemente tutte le successive offerte di assaggini vari. Ci sono anche le bancarelle strapiene di un dolce tipico di queste parti che in Georgia si chiama Churchkela e in Armenia Sharots consistente in palline di noci sbucciate infilzate e tenute insieme da uno spago e immerse in succo d’uva addensato ed essiccato che gli dà un po’ l’aspetto di salsiccia. Le varianti sono tante, dalle noci alle nocciole, dal mosto d’uva a succhi vari, di mora, ribes o altra frutta e cambiando di sapore cambiano anche di colore, dando alle bancarelle in cui le vendono un aspetto variopinto e divertente.

Il mercato all’aperto di Erevan invece è il Vernissage, molto centrale, nato come mercato delle pulci e degli artisti e via via imborghesitosi con l’incremento delle visite dei turisti. Due corsie e 300 metri di bancarelle che vendono artigianato locale e souvenir vari senza differenziarsi poi molto da bancarella a bancarella.
Una delle cose da non perdere a Erevan è il complesso della Cascata un progetto mastodontico la cui prima fase ha avuto luogo negli anni ’70 ma che poi ha preso nuovo impulso grazie alle donazioni del magnate americano di origine armene Mr Cafesjjan nel primo decennio del 2000. Si tratta di una scalinata di calcare bianco di 572 scalini e 300 metri di altezza con fontane ed opere d’arte di origini varie. Nel viale alla base della scalinata ci sono anche 3 statue di Botero in tutta la loro rigida adiposità. La cascata si può anche risalire da dentro tramite 5 livelli di scale mobili. L’interno è esso stesso un’esposizione permanente di arte varia e sede di un museo diffuso, distribuito su 5 sale corrispondenti ai 5 livelli della cascata, il Cafesjian Centre for the Arts, o in armeno Գաֆէսճեան արվեստի կենտրոն. In cima a tutto c’è un enorme balcone che domina tutta la città con al centro un monumento alto 65m eretto nel 1970 per celebrare il 50mo anniversario dell’ingresso dell’Armenia nell’unione sovietica. La cosa assurda è che a questo balcone non ci si arriva semplicemente salendo gli scalini della cascata ‘che ad un certo punto finiscono e devi avventurarti su una stradina deserta e un sottoponte per arrivarci. In mezzo, tra la fine degli scalini e il bel balcone, un cantiere di pilastri di cemento con ferro arrugginito che fuoriesce, segno di abbandono a metà lavori. Sul balcone di sopra, all’interno di un cubo di latta e vetro, un anziano sorvegliante con stufetta e parole crociate per passare la giornata; anche lui è uno sfrenato fan di Celentano e ci racconta… ok ci fa capire.. che ad un certo punto della costruzione, quando il magnate armenamericano ha capito che dei milioni di dollari che versava, una gran parte finivano nelle tasche dei burocrati locali, ha interrotto l’erogazione ed il progetto langue così da 10 anni. Certo dal basso non si vede e tutti i dépliant turistici evitano accuratamente le foto dall’alto. Prima o poi si farà. Con calma.
Da lassù, attraversiamo la strada e siamo nel Parco della Vittoria e invece dei dadi di Monopoli troviamo, come no, IL LUNA PARK!!!! Con tanto di ruota panoramica, evviva! Qui però è tutto strachiuso, nessuno nascosto all’interno con la stufetta, pronto a far partire il marchingegno a richiesta. Alla fine del parco, l’enorme statua di Madre Armenia con le quattro sale del museo militare che riporta foto, reperti e racconti degli eroi armeni della seconda guerra mondiale e soprattutto del conflitto molto più recente contro l’Azerbaijan per l’indipendenza del Nagorno-Karabakh, regione assegnata da Stalin all’Azerbaijan anche se popolata in grande maggioranza da Armeni e per questo ribellatasi dopo il crollo dell’unione.

Le relazioni tra questi due vicini sono tutt’ora incandescenti chissà se in futuro si raffredderanno o prenderanno fuoco un’altra volta aggiungendo un altro conflitto nella lista infinita di guerre scontri e stermini che da sempre affliggono queste terre martoriate.
Assaporiamo le ultime ore di Armenia, tra giri in centro e viste a musei. Prendo anche la metro di Erevan non molto estesa ma anche questa bella da vedere e molto funzionale. Per entrarci devi comprare all’ingresso un gettone arancione, un po’ come quelli delle giostre anni ’70 e costa più o meno il prezzo che pagavamo per un giro in autoscontro, 3 o 400 lire.
Mi ero ripromesso di non andarmene prima di essermi fatto un’altra scorpacciata di Gouvaj, così a cena ritorniamo da Anteb e ci accoglie il giovane cameriere simpatico dell’altra volta di cui ricordo anche il nome, Nejdè. Ci chiacchieriamo un po’ e scopriamo che in realtà è siriano, di Kessab nella zona nordoccidentale della Siria, vicino al confine con la Turchia, una zona popolata quasi esclusivamente da Armeni, per cui tutti come lui hanno il cognome che termina in YAN o IAN e parlano esclusivamente armeno tra loro. Dice che la guerra ha soltanto sfiorato quella parte di Siria, la sua famiglia è stata sfollata 6 mesi e poi è tornata a casa. Mi aspettavo di sentire il racconto di chissà quali peripezie per arrivare a Yerevan e invece ci è venuto tranquillamente in aereo per studiare all’università. E la sera fa il cameriere per guadagnarsi da vivere. Storie di ordinaria normalità insomma, è bello sentirle ogni tanto, anche qui.
Ci riposiamo un paio d’ore per smaltire cibo e vino ed un tassista ci porta in aeroporto. E’ scontroso, non dice neanche una parola e non solo neanche un sorriso ma è uno di quelli che danno l’idea di non farlo da tanto tempo che i muscoli facciali appositi gli si sono ormai atrofizzati. Riflette un po’ la tendenza generale di questa parte del mondo dove le donne sono mediamente più carine e più gentili dei maschi meno belli e più scontrosi. Giovani di tutto il mondo, armatevi e partite, questo è il terreno di caccia ideale
Articolo integrale pubblicato a http://iviaggidimauro.altervista.org/georgia-e-armenia-19/
Categorie