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La cristianità armena

Cenni di storia, di liturgia, di spiritualità

Mons. Levon Arciv. Zekiyan
Mons. Levon Arciv. Zekiyan

Pubblicato in: Dante in Armenia. Scultura, medaglia, pittura, grafica, editoria di Autori Armeni su tema dantesco nel 1700° anniversario dell’Armenia cristiana, CENTRO DANTESCO dei Frati Minori Conventuali, Sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica Italiana, Ravenna, 1 luglio – 30 settembre 2001, Chiostri Francescani, g.c. della Cassa di Risparmio di Ravenna, (volume senza numerazione di pagine).

Le origini cristiane in Armenia

Sono assai vetuste le origini del Cristianesimo in Armenia. La tradizione le fa risalire agli apostoli Taddeo e Bartolomeo. La critica moderna ha potuto avvisare tracce di predicazione cristiana già a partire dalla seconda metà del II secolo. La storiografia armena moderna, interpretando i dati storici tradizionali, ha collocato la conversione del Regno, avvenuta sotto Trdat (Tiridate) III, nel 301. Questa data, seppure dibattuta tra gli specialisti, è la data ufficialmente accolta dalla Chiesa Armena per le celebrazioni giubilari del XVII centenario dell’evento alla stessa guisa come si celebra la nascita del Salvatore Gesù Cristo, nel mondo cristiano, secondo la recepita datazione tradizionale. In ogni caso – anche nell’ipotesi della datazione infima al 314, proposta da alcuni critici -, alla Nazione armena spetta l’onore e l’onere di primo Regno cristiano al mondo, coi dati e il contesto relativo alla conversione storicamente accertati e soprattutto con una successione dinastica e una tradizione di Stato e di cultura cristiana da allora in poi ininterrotte. La conversione dell’Armenia anticipa di parecchi decenni l’accettazione del Cristianesimo, decisa da Teodosio il Grande, come religione dell’Impero romano nell’ultimo quarto del IV secolo.
Il cristianesimo penetrò in Armenia secondo due direttive concomitanti, dal sud, dalla Siria, e dall’ovest, dalla Cappadocia donde proveniva pure l’Apostolo del Regno, Gregorio l’Illuminatore. Recenti studi svelarono inoltre fortissimi influssi gerosolimitani nella primeva liturgia armena, le cui impronte non furono offuscate nel corso dei secoli. E’ infatti una caratteristica dominante del rito armeno quella di mantenere da una parte tratti assai arcaici e dall’altra di introdurre innovazioni di notevole rilievo, senza che queste ultime abbiano oscurato le prime.

La creazione dell’alfabeto armeno e il suo impatto sull’identità e la cultura armene

Per tutto il IV secolo le funzioni liturgiche in Armenia vennero celebrate in siriaco e in greco, mancando l’armeno di un alfabeto proprio e servendo quindi unicamente da lingua parlata. La situazione cambiò grazie al saggio intuito di un giovane ieromonaco, il santo vardapet Mesrop Mashtots il quale, sostenuto dal lungimirante e pure santo catholicos Sahak e dal sovrano Vramshapuh, portò a compimento l’idea di un alfabeto proprio per la lingua armena, dando inizio a quel processo formativo che doterà il rito armeno dei propri connotati specifici e di una ricca fioritura di letteratura religiosa ed ecclesiale di traduzione e in lingua. Mesrop è considerato dalla tradizione armena il prototipo dei vardapet (‘maestro’), figura giuridica particolare nella Chiesa armena sino ad oggi, composta dal clero celibatario. I vardapet erano effettivamente i maestri e i teologi ufficiali, un tempo autorevolissimi. Secondo la tradizione, risalirebbe a Mesrop, per una trasmissione ininterrotta, l’investitura del grado, simboleggiato dal baculum magisteriale (gawazan vardapetakan) che viene consegnato ancor oggi con uno speciale rito liturgico.
A partire dal momento della conversione del Regno, il destino dell’Armenia e del popolo armeno fu inscindibilmente connesso a quell’opzione storica. Non appena trascorso un secolo e mezzo, nel 451, la Chiesa armena affronterà il suo primo battesimo di sangue comunitario, noto come il “martirio dei Vardanankh”, guidata dalla convinzione saldamente confessata ed espressamente dichiarata: “Chi credeva che il cristianesimo fosse per noi come un abito, ora saprà che non potrà togliercelo come il colore della nostra pelle” (Eghishe [Eliseo], Storia della guerra di Vardan e degli Armeni, cap. V). Tale convinzione suggellerà per i secoli successivi l’animo e la cultura del popolo armeno e inciderà nella maniera più emblematica nell’olocausto genocidario dell’inizio del Novecento. Infatti, pur essendo gli ideatori del progetto di sterminio motivati soprattutto da fattori di ordine diverso da quello religioso, fu quest’ultimo in ogni caso a prestare, alla resa dei fatti, il criterio di discriminazione effettiva nella decisione tra vita e morte: si sono potuti salvare quanti accettarono di rinnegare la fede cristiana.

Il rito armeno

Il rito armeno, vicino alla famiglia antiochena, è considerato come un ramo a se stante nel complesso dei riti orientali. L’antico rito della Cappadocia ebbe in Armenia notevoli riflessi. Ci è pervenuto, ad esempio, l’anafora di San Basilio in armeno in una forma molto più arcaica rispetto alla vulgata bizantina. Gli influssi bizantini diretti, sostanzialmente crisostomiani, nella liturgia eucaristica sono di epoca relativamente tarda (XI-XII sec.); ancora più tardi sono gli influssi occidentali nella Messa e nel rito delle ordinazioni (XIII-XV sec.).

Tra le caratteristiche salienti del rito armeno, sono da notare in particolare le seguenti: a) la celebrazione dell’Eucaristia col pane azzimo, unico tra tutti i riti orientali, senza averla mutuata dal mondo latino; b) la celebrazione, unica, questa, nell’intero mondo cristiano, senza commistione di acqua nel vino eucaristico; c) la celebrazione del Natale e dell’Epifania insieme, secondo l’arcaica usanza orientale, il 6 di gennaio; d) il significato cristologico del canto del Trisagio, sottolineata dall’aggiunta dell’acclamazione «che fosti crocifisso per noi». Tale connotazione cristologica del Trisagio è un’eco anch’essa della tradizione più antica residua, oltre che nelle Chiese non calcedonite dell’antico Oriente, pure nella Chiesa di Roma negli “Impropèri” del Venerdì Santo, anteriori alla riforma liturgica del Vaticano II, i quali erano accompagni appunto dal canto del Trisagio il quale non poteva non avere nel dato contesto altro significato che non quello cristologico, e persino in alcuni tropari bizantini.

La Liturgia armena, conformemente alla struttura generale delle liturgia cristiana, si divide in due parti fondamentali: Liturgia della Parola o Sinassi, detta in armeno “Liturgia meridiana” (Çashu pashton, ad litt. “Liturgia del pasto”), e Liturgia eucaristica, cioè l’Anafora, il Pataragamatuyts (ad litt. “offerta del dono/sacrificio”). La Sinassi è preceduta da un rito preparatorio, composto dal Confiteor e dal Salmo XLII, mutuati dal rito romano nel tardo Medioevo, e dalla Protesi, vale a dire la preparazione dei Doni su un altarino laterale appositamente allestito. La liturgia della Parola si suddivide in cinque momenti principali: l’introito, “l’ingresso minore” con la processione dell’Evangelo e col Trisagio (Yereksrbian), letture bibliche, dimissione dei catecumeni, “l’ingresso maggiore” con la traslazione dei doni dalla protesi sull’altare del sacrificio, cioè l’altare maggiore (Veraberum, ad litt. “anafora”).
Nell’antichità parecchie anafore furono praticate dagli armeni. L’unica oggi in uso è quella attribuita a Sant’Atanasio, di provenienza comunque cappadoce, che soppiantò le altre anafore, pare, a partire dal X-XI secolo. Essa costituisce di per sé un’unica grande preghiera, articolata in vari momenti, che inizia con l’invocazione “Signore Dio degli eserciti e fattore di tutti gli esseri” e termina con una solenne dossologia trinitaria che precede il Padre nostro, ambedue proferite oggi – sia l’invocazione che la dossologia – dal celebrante a voce sommessa. Tra l’invocazione e la dossologia si collocano il rito del “santo saluto”, il prefazio, l’anamnesi, l’epiclesi, la supplica per l’intercessione della Vergine e dei Santi, la commemorazione dei vivi e dei defunti.
Al Padre nostro segue l’Elevazione, un momento particolarmente suggestivo del rito armeno. L’Elevazione è accompagnata da una confessione trinitaria alternata tra il celebrante, i diaconi e il coro, e si conclude con il solenne invito del celebrante a cibarsi del Corpo e del Sangue del Salvatore: “vita, speranza, risurrezione, espiazione e remissione dei peccati”. Questo invito è oggi accompagnato dalla benedizione dell’assemblea con le sacre specie. Seguono la comunione, che si fa per intinzione, il ringraziamento e i riti di dimissione.

L’anno liturgico si divide in sette cicli di circa sette domeniche ciascuno. È tipica la classificazione assai rigorosa del “mistero” dei giorni liturgici con reciproca esclusione. Così le domeniche sono esclusivamente il “Giorno del Signore”, per cui nessuna festa di santo può esservi celebrata. Ogni domenica commemora unicamente la Risurrezione di Cristo. Solo una festa “domenicale”, cioè del Signore, come l’Epifania, può essere celebrata di domenica. È da notare inoltre che le feste della Vergine sono tutte considerate domenicali, in quanto inscindibilmente connesse coi misteri dell’Incarnazione e della Redenzione. È invece usanza relativamente tarda, divenuta comune probabilmente tra l’XI e il XII secolo, quella di spostare alcune feste fisse, come l’Assunzione e l’Esaltazione della Croce (ma mai l’Ascensione e l’Epifania), alla domenica più vicina. Il tempo pasquale si protrae per quaranta giorni fino all’Ascensione, con la liturgia della Risurrezione celebrata ogni giorno. Seguono i dieci giorni dell’Ascensione, indi la Pentecoste (Pentekoste oppure Hogegalust, cioè Avvento dello Spirito) con Ottavario, celebrati sempre con liturgia domenicale. Di ottavari sono insignite inoltre l’Epifania e l’Esaltazione della Croce, di Novenario (originariamente triduo) l’Assunzione, di Triduo la Trasfigurazione.
Come di domenica non si celebrano feste di santi, per l’eccelsa dignità del giorno, esse non si celebrano neppure, quasi per difetto, il mercoledì e il venerdì, giorni dedicati alla penitenza e all’astinenza/digiuno. Solo le feste domenicali prevalgono su questi giorni, togliendone l’astinenza/digiuno. Giorni penitenziali, quindi senza celebrazione di santi, sono inoltre l’intera Quaresima e le settimane che precedono le grandi feste domenicali: Epifania, Trasfigurazione, Assunzione, Esaltazione della Croce, eccetto il sabato. Il lunedì successivo di ognuna di queste feste, come pure il Lunedì di Pasqua sono dedicati alla memoria dei defunti con visita e benedizione dei cimiteri. È particolarmente solenne la veglia di queste feste con un proprio ordo e una propria denominazione: Çragaluyts (Accensione dei lumi) per il Natale, Chthum(n) (Fine del digiuno) per la Pasqua, Ton Tapanakin (Festa del Tabernacolo) per la Trasfigurazione, Shoghakath (Stillazione di raggi) per l’Assunzione, Navakatikh (Nuovo inizio) per l’Esaltazione della Croce. L’Avvento inizia la domenica più vicina al 18 di novembre e dura cinquanta giorni (fino al 6 gennaio), con una
settimana d’astinenza all’inizio e alla fine.
Tra i riti più suggestivi della Liturgia armena sono da menzionare la Benedizione dell’acqua battesimale (Djrorhnekh) il giorno dell’Epifania, il rito del Drnbatsekh (“Apertura della porta”, cioè della porta della chiesa, simboleggiante l’ingresso del Paradiso) dopo i Vespri della Domenica delle Palme, e la Benedizione dei campi e dei quattro angoli del mondo (Andastan) che si fa nelle solennità dall’Ascensione fino all’Esaltazione della Croce.

L’Armenia, “ponte” tra Oriente e Occidente

Per sua posizione geografica l’Armenia storica stava tra Oriente e Occidente, sulle crocevie tra Asia ed Europa. Non in vano è stata definita come un “ponte naturale” tra Oriente e Occidente. La stessa configurazione etnica e in particolare la lingua armena mettono fortemente in evidenza, con le loro bivalenze e polivalenze di componenti e di strutture tale caratteristica, si potrebbe dire congenita, dell’identità e cultura armene.
La prima grande sfida della storia armena nel relazionarsi tra Oriente e Occidente si gioca nell’incontro-scontro tra il mondo classico ellenistico romano e il mondo iranico-partico. Sappiamo quanto l’Armenia abbia subito l’influsso dell’antico Iran, a partire dagli achemenidi; ne parlava già Senofonte, e la linguistica ci svela la grandissima proporzione nel lessico armeno di imprestiti iranici, soprattutto dell’epoca parto-arsacide. Però, nonostante la fortissima presenza di tale sostrato ‘orientale’, anche in quell’epoca l’Armenia sta già tra due realtà e cerca di elaborare una propria sintesi. Da Artašēs I, alleato dei Romani, sino al fecondo scrittore ‘greco’ Artawazd II attraverso il ‘filelleno’ Tigran II, l’intera dinastia degli Artassidi è testimone di questa ricca ed arricchente ambi-valenza armena, nonostante l’ostentata incomprensione del fenomeno, nella sua impostazione e risvolti speciali, da parte di parecchia storiografia romana e successiva.
In seguito vediamo l’Armenia tra il mondo bizantino-greco e i Sasanidi. Quest’epoca è particolarmente indicata per esemplificare la tipologia armena del rapporto tra Oriente e Occidente, poiché credo che essa rappresenti uno dei momenti più privilegiati di tale correlazione in quanto è in quest’epoca che si configura, prende corpo ciò che chiamerei l’ideologia armena cristiana e si forma la grande tradizione storiografica dell’Armenia.
Più tardi assistiamo al confronto tra il mondo greco-bizantino e il mondo arabo. Invasione araba, dominio arabo e poi una sorta di alleanza, non totalizzante, con il mondo arabo: questi possono essere i termini per qualificare approssimativamente le fasi principali che attraversa la correlazione armeno-araba tra il VII e il X secolo. Il mondo arabo si trasformerà in seguito per gli armeni, a partire dall’XI secolo effettivamente, nell’universo islamico nella sua grande, per tanti versi eterogenea varietà.
Contemporaneamente a tali sviluppi tardomedievali, l’Occidente sarà rappresentata da una nuova realtà geografica e culturale che sarà l’Occidente franco. Come sappiamo, questo Occidente, si trovò spesso in un riscontro più che dialettico, antitetico, con il proprio ‘Oriente’ che era il mondo bizantino. Fenomeno questo per la cui spiegazione l’unica via percorribile mi pare essere quella dell’analisi strutturale delle intersezioni e sovrapposizioni culturali, per cui abbiamo all’interno delle singole mega-aree policentrismi ed anularità orbitali asimmetrici. Mi accontento qui di questo cenno assai fugace a tale argomento che ho cercato di sviluppare più estesamente in altre sedi.
La realtà islamica per gli armeni si tradurrà a sua volta, nei secoli che in Occidente assisteranno alla nascita dell’era moderna, soprattutto nelle realtà turco-ottomana e persiana. Sembra paradossale, e nonostante le ambiguità insite in simili riferimenti storici, non si può dimenticare che l’Impero ottomano, primo referente degli armeni al proprio ovest, era l’erede diretto dell’Impero bizantino, cioè in ultima analisi, di una romanità imperiale. Ciò potrebbe rendere, credo, più comprensibili alcune dinamiche storiche, per certi versi sorprendenti – a volte sconcertanti, secondo il punto di vista -, che si sono susseguite, sia nell’era ottomana che in epoche più recenti, nella complessissima rete di rapporti tra l’Occidente europeo e l’Oriente/Occidente turco, in cui si giocavano in pari tempo le sorti dell’armenità; la quale armenità, invece, forse mai fu recepita – né capita e stimata – dall’Occidente europeo, a partire già dai tempi greco-romani, nelle sue valenze tese verso l’Occidente.
Alla realtà islamica, nella dialettica bipolare in mezzo alla quale gli armeni verranno a trovarsi, si proporrà quale polo opposto, quindi quale proprio ‘Occidente’, il mondo russo a partire dal Settecento. Nella fase storica attuale che stiamo attraversando, anche dopo il crollo dell’Unione sovietica, la Russia, referente privilegiato dell’‘Occidente’ armeno per gli armeni orientali per tutto l’800, sia sul piano politico che su quello culturale, resta tuttora un referente di primo piano in tal senso anche per la giovane Repubblica armena indipendente, pur nel complesso delle dinamiche fortemente tese ad una integrazione a tutti i sensi nella comune realtà europea.
Quanto detto, pur nella immensa complessità del lunghissimo percorso storico, è solo uno scorcio, per un elementare approccio strutturale e, al tempo stesso, per una più concreta consapevolezza di quanto sia stato vario e polivalente il confronto nella storia armena tra Oriente e Occidente.

Dinamiche di apertura

La fedeltà sino al martirio, confessata dagli armeni in termini a prima vista intransigenti, poiché non compromettibili, si presenta nel contempo, ad uno sguardo più penetrante, anche nel segno di una saggiamente dosata flessibilità: l’armeno, graniticamente saldo sulla non compromissorietà della propria fede e dignità nazionale, non ha mai dubitato a dichiarare solennemente la propria disponibilità alla collaborazione e, occorrendo, alla subordinazione/ subalternanza, variamente intese a seconda dei vari contesti storici, che non gli chiedessero il sacrificio della propria identità.
Dai Sasanidi agli Arabi e da questi ai Safavidi ed agli Ottomani, che li nominarono la “nazione fedele”, fu questa una linea di condotta inalterabile degli armeni: la disponibilità, anzi la voglia di convivenza anche con fedi e signorie non cristiane, ma alla ferrea condizione del rispetto della propria dignità di popolo, pena la rivolta di sangue. All’uopo si sviluppa presso gli armeni persino la concezione di una sorta di sovranità “limitata”, proprio per poter realizzare tale convivenza. La prevalente finalità pragmatica di questo approccio sul piano politico – la pace e l’incolumità del proprio regno -, non ne cancella le valenze “ecumeniche”.
Oltre ai rapporti sviluppati sul proprio territorio con allogeni ed allodossi limitrofi o innestati nel territorio, la vocazione armena all’‘oikumene’, nella costante dialettica tra codici universali ed incarnazione etnica, troverà un campo di espressione ed espansione privilegiate nelle interminabili colonie sparse per il mondo come pure nelle varie fasi della fatidica Diaspora. Per dirla in breve, gli armeni vi sviluppano nel corso di lunghi secoli uno status di “etnicità”, in condizioni di minoranza “non territoriale”, che risolve in maniera quasi esemplare l’ardua dialettica tra conservazione ed integrazione. La loro proposta di soluzione fa perno da una parte su un concetto d’identità che potremmo definire come “identità polivalente” o pluridimensionale, e dall’altra su un concetto del rapporto tra “suddito” (hpatak – diremmo oggi “cittadino”) e Stato, che distingue chiaramente, senza contrapporli, i parametri oggettivi: il “codice universale” della cittadinanza, e i parametri ‘soggettivi’ (nel senso di appartenenza al soggetto), vale a dire antropologico-culturali, individuali e comunitari, dell’incarnazione etnica, del senso di “nazione” (o di “etnia” secondo la terminologia prevalente oggi in ambito occidentale). La proposta implica in ogni caso il superamento dell’idea di nazione come entità univocamente politica, identificata in concreto con la statualità, in altri termini il superamento del concetto monolitico di Stato-nazione in ciò che esso ha di chiuso e d’inflessibile.

Il carisma di ecumenicità

Le dinamiche di apertura, che non senza qualche paradosso, nascono da una situazione i rischio, e del rischio per eccellenza: il martirio, raggiungono il massimo in ciò che costituirà la tradizione ecumenica, in senso squisitamente teologico, della Chiesa Armena.
Ci troviamo, ovviamente, non di fronte ad uno “speculum sine macula”, né a qualche miracolo della “natura”, bensì ad un fenomeno di pedagogia della storia e della Grazia che matureranno nella seconda metà del XII secolo quelle figure uniche nel proprio genere non solo nell’ambito della Chiesa Armena, ma della cristianità intera lungo l’arco della sua storia, i summenzionati santi Nerses Shnorhali e Nerses di Lambron.
Già prima di loro ciò che spesso aveva premuto agli armeni meglio illuminati, più che la condanna delle usanze dei Greci o di altri, era stato invece il riconoscimento, da parte degli altri, di quelle proprie. Atteggiamento senz’altro consono alla consapevolezza di una Chiesa che non perse come di norma il senso realistico dei propri limiti e proporzioni. Consapevolezza, incisa a parole d’oro nel celebre detto di Movses Chorenatsi, il padre della storiografia armena, nel prologo della sua Storia, quasi a perpetuo oracolo per i posteri: “sebbene siamo noi una piccola aiuola e numericamente circoscritti assai nell’esiguo e deboli nelle forze e soggiogati parecchie volte sotto un altro regno, nondimeno molte opere di coraggio si trovano compiute anche nel nostro paese e degne di essere menzionate per scritto”.
Un analogo atteggiamento connesso alla percezione della sostanziale equivalenza di formulazioni dogmatiche terminologicamente e concettualmente differenti, in sostituzione degli atteggiamenti di ‘imposizione’, quasi abituali, delle ‘grandi’ Chiese, si riscontra nella Chiesa rmena nell’ambito anche propriamente dogmatico, e non solo nel pensiero di quei due esimi Nerses appena menzionati. Un chiarissimo esempio ne abbiamo nell’esposto del Catholicos di Etchmiadzin, Movses IV di Tathev, a Urbano VIII, nella sua lettera del 17 Agosto 1626: “Non siamo noi eretici o scismatici, come voi credete, ma siamo ortodossi, secondo la confessione dei nostri Padri spirituali, ed anatematizziamo per nome tutti gli eretici: Ario, Macedonio, Nestorio, Eutiche e tutti coloro che pensano come loro. Infatti, anche se diciamo una la natura di Cristo, che vi pare sia eutichiano, però vi aggiungiamo: inconfusa. Se non dicessimo inconfusa, sarebbe un’eresia abominevole. Esattamente come quando voi dite “due nature”, che è simile a quanto diceva Nestorio, ma aggiungete: indivise. Se non aggiungeste “indivise” dicendo due le nature, sarebbe un’eresia abominevole. Invece, mentre noi diciamo una la natura inconfusa, voi dite due le nature indivise. Ed unico e ugualmente corretto è il senso di ambedue le espressioni”.
Torniamo però a Shnorhali. Egli, seppure ignoto ai più, è un vero antesignano dell’ecumenismo moderno più aperto, forse il primo, certamente uno degli spiriti rari, a scoprire in termini così chiari e precisi la convenzionalità e la conseguente relatività del linguaggio teologico, anche dogmatico; a formulare la completa indifferenza dei riti e delle discipline ai fini della comunione ecclesiale, purché obbediscano alla fede e alla carità; a penetrare il significato concreto della sostanzialità del segno sacramentale, mentre il sommo Tommaso d’Aquino, ad esempio, non potrà fare a meno, nella costruzione della sua teologia sacramentaria, degli schemi impostigli dalla tradizione latina in un vano, ma influentissimo tentativo di farne la norma universalmente valida (che determinerà anche il notissimo Decretum pro Armeniis del Concilio di Firenze, certamente non molto felice nelle sue formulazioni e pretese); ed ancora a cogliere fino in fondo il senso della libertà della fede: mentre il suo grande coevo, San Bernardo, il Doctor Mellifluus, non sfuggirà alla diffusissima tentazione dell’epoca di convertire alla fede, occorrendo, anche con la forza delle armi, Shnorhali darà invece ai suoi sacerdoti viventi in mezzo a residui semipagani una direttiva diametralmente opposta.
Purtroppo la morte sopravvenuta non permise al Catholicos armeno di portare a termine l’opera dell’unione, cui egli anelava, secondo la bellissima espressione della sua lettera all’Imperatore di Costantinopoli Manuele Comneno, “non solo da vivo, sebbene affetto da infermità, ma anche dal sepolcro, se fosse possibile, risorgendo come Lazzaro per seguire la chiamata della voce divina”. Nonostante l’incompiutezza storica del progetto, egli “tracciò, purtuttavia, le direttrici di un’unione ecclesiastica, che rimarranno per sempre valide”, come disse un eccellente studioso, il padre Paolo Ananian.
Ecco, in sostanza, i principi che possiamo considerare come il “decalogo ecumenico” di Shnorhali: A) L’unione è un’opera divina. La preghiera è la condizione preliminare e il mezzo più eccellente per raggiungerla. B) L’unico necessario per l’unione è la verità della fede nella carità. Tutte le differenze di riti, di tradizioni, anzi delle stesse formulazioni dogmatiche (purché non nuocciano all’integrità della fede, cioè siano compatibili con una interpretazione ortodossa), diventano secondarie. Perciò occorre non esigere né imporre da una parte e dall’altra niente che non sia strettamente necessario per l’unità della fede. C) ciononostante, quando una delle parti insiste su un punto che non sia rigorosamente necessario, sarà bene che la controparte si sforzi di andarvi incontro per salvare la comunione della carità. D) Occorre sforzarsi al massimo perché l’obiettivo dell’unione non crei nuove scissioni all’interno delle rispettive Chiese. L’unione deve essere un’opera comunitaria; essa ha un senso in quanto impegna la comunità ecclesiale. Questa responsabilità ricade soprattutto sui capi delle Chiese. Shnorhali è nella piena, e saggia, consapevolezza che un’eventuale unione conclusa da lui, senza il consenso della maggioranza della sua Chiesa, possa rischiare un risultato del tutto effimero. Il problema si pone ugualmente, anche quando si tratta d’introdurre delle modifiche rituali o disciplinari. Alla preoccupazione ecclesiale e comunitaria si aggiunge quella canonica in quanto neppure il Catholicos dovrebbe sentirsi autorizzato a trascurare il consenso dei propri vescovi, considerandosi come investito a rappresentare da solo la propria Chiesa. Ciò non significa affatto desistere dal perseguimento dell’obbiettivo, ma vuole solo ribadire quanto sia necessario in un lavoro così delicato, come quello di ricomporre l’unità della Chiesa, avere il massimo di tatto, di pazienza, d’amore, e procedere per gradi preparando gli animi. E) Un fattore assai importante per l’unione è la preparazione psicologica, nel senso della carità cristiana, che deve condurre a dimenticare il passato. arità che deve però esprimersi concretamente in tutti i settori della convivenza umana. Shnorhali è ben consapevole che la barriera di una separazione plurisecolare, fomentata da rivalità, da calunnie, da odio reciproco, costituisce per l’unione un ostacolo gravissimo. F) Il reciproco rispetto nella carità deve costituire la legge basilare delle trattative. L’uguaglianza e la franchezza nella conduzione dei colloqui sono condizioni imprescindibili perché questi abbiano un senso e possano riuscire. Una particolare umiltà è richiesta da chi è più grande e più forte, perché la controparte non si senta soggiogata da tale grandezza e forza. I dibattiti mai devono essere animati dall’ambizione di riportare vittoria, ma dal sincero desiderio di correggersi nell’unico intento di scoprire la verità. Con simili concezioni Shnorhali si fa araldo effettivamente del moderno concetto di “dialogo”. G) L’unione essendo una causa divina, non può avere altro motivo se non la carità cristiana, l’amore della pace e della concordia, sostenuti dalla convinzione interiore. Nessun interesse politico o considerazione umana deve, né può intervenire, pena il tradimento della propria coscienza affine al diniego della fede cristiana. Ciò non esclude, anzi conferma, che l’amore dovendosi esprimere, come abbiamo già rilevato, in tutti i settori della convivenza umana e della vita civile, debba risplendere necessariamente anche nei rapporti politici tra i popoli e le nazioni.

La collocazione teologica della Chiesa Armena

Non è possibile parlare della Chiesa Armena senza toccare la questione del suo rapporto con la cristianità calcedonitica. La Chiesa Armena appartiene, infatti, al novero delle cosiddette Chiese precalcedonite.
Pur nella varietà dei dettagli, la critica è quasi concorde nel riconoscere il VI secolo come decisivo per il rigetto ufficiale del Concilio di Calcedonia da parte degli armeni. Il fossato con Bisanzio era già abissale nella seconda metà del secolo. Però solo nei primi decenni dell’VIII secolo potrà dirsi consumato il processo della prevalenza dell’anticalcedonismo come “normale” e “normativo” in seno alla Chiesa Armena.
Si è molto discusso sulle motivazioni di tale scelta. Volendo evitare approcci unilaterali, d’indole puramente teologica o prettamente politica, ci pare che un insieme di fattori, riassumibili sotto la categoria generale di “politica religiosa”, includente quindi e la teologia e il diritto e la cultura e la politica profana, possano spiegare l’orientamento anticalcedonita degli armeni. La svolta decisiva ci sembra in notevole parte dovuta alla politica giustinianea che segnò la solenne proclamazione delle intenzioni bizantine, tese praticamente a fare dell’Armenia una provincia dell’impero smantellandone l’assai singolare struttura feudale dei nakharar, spina dorsale del sistema politico armeno. Senza dimenticare l’impatto che in un simile contesto esercitava pure il famoso e malconcio canone 28 di Calcedonia, mai riconosciuto neppure dalla Chiesa di Roma, il quale anzi aveva persino ritardato il riconoscimento del Concilio stesso nella sua globalità da parte del papa Leone I. Infatti, esso sovvertiva l’ordine tradizionale dei patriarcati orientali, assegnando a Costantinopoli, la nuova capitale dell’impero d’Oriente, la precedenza sulle apostoliche sedi di Antiochia e di Alessandria, e inoltre attribuiva il tradizionale primato del vescovo di Roma al fatto che Roma fosse la capitale dell’impero.
È doveroso comunque sottolineare fortemente la sostanziale concordia, al di là della diversità nelle formulazioni, della cristologia armena con la fede delle Chiese calcedonite, credenti tutte insieme nell’unico Cristo, Verbo incarnato, vero uomo in tutto, integro nell’umanità, e Dio vero. Questa sostanziale e piena ortodossia della cristologia armena, come pure di altre Chiese precalcedonite, è ormai, si può dire, di comune possesso, tra gli storici del dogma e nelle dichiarazioni di autorità delle rispettive Chiese, nonostante le reticenze al riguardo, frequenti nel mondo bizantino-ortodosso, e certe perplessità che spuntano a volte in seno alle stesse Chiese precalcedonite nel sottolineare la propria ‘originalità’ rispetto a Calcedonia. Per la Chiesa Armena, un riconoscimento solenne di ortodossia cristologica, su un piano di reciprocità, con la Chiesa di Roma, si ebbe nella comune Dichiarazione di Papa Giovanni Paolo II e del Catholicos Karekin I, firmata e promulgata al Vaticano il 13 dicembre 1996.

La spiritualità

Non potremmo chiudere queste note inroduttive senza un cenno alla spiritualità. Essa trova probabilmente l’espressione plastica più felice nella sua architettura dalle forme cristalline, dagli spazi geometricamente definiti, dalla cupola unica: architettura restia ad ogni “retorica” tonale e stilistica; sobria, lineare, essenziale, dominata da una tensione vertiginosa di verticalità trascendentale.
Il khatchkar (pietra-croce, pietra cesellata di croce), espressione tipica e singolare della scultura decorativa armena, corona tali caratteristiche col suo rapporto viscerale agli elementi primordiali: la pietra-roccia, saldezza del cosmo, e la terra, onde germoglia l’Albero della Vita. Rapporto viscerale, irruente, con l’arkhé nonostante la virtuosità consumata della cesellatura a merletto di quelle pietre; un rapporto, anzi, che vive della passione ssessionante della ricerca dell’ordine, della cifra, dell’unità, delle “radici” dell’universo. In virtù di questa tensione, di questa ricerca appunto, “Il paesaggio dell’Armenia, ‘regno di pietre urlanti’ – secondo un’espressione cara a Osip Mandel’štam (B.L.Z.) -, diviene l’allegoria spaziale del farsi del linguaggio, della poesia allo stato nascente”, come incisivamente chiosa Serena Vitale il testo mandelštamiano (In: O. Mandel’shtam, Viaggio in Armenia, a cura di S. Vitale, (Piccola Biblioteca, 215), Adelphi, Milano, p. 178).
Il khatchkar, che ci piacerebbe definire come la vera “icona” della spiritualità armena (la quale non conosce l’iconostasi di tipo bizantino), si compone essenzialmente di due elementi: la croce e la pietra. La pietra: materia, sostrato, ricettacolo, elemento terreno, cosmico; la croce: significato, impronta spirituale, elemento umano-divino sigillato sulla pietra, elemento che trasforma, trasfigura, che anima la pietra come l’anima nuova della pietra. Nuova, perché la pietra stessa non era del tutto inanime, dotata com’era dagli evi più remoti di una sua vitalità, irradiante dalla perenne cupola dell’Ararat, severa e maestosa, erompente e salvifica, a seconda delle varie forme mnemosiniche, apotropaiche o cultuali di cui si rivestiva.
Questa ricerca viscerale, sul piano della creazione artistica, di quanto più profondo, più elementare, primordiale vi sia nell’essere, dà in pieno la tonalità di ciò che costituisce la tensione più intima, la sostanza più nuda della spiritualità armena.

Non si potrebbe, mi pare, pensare ad una migliore parafrasi delle solenni celebrazioni le quali si stanno svolgendo quest’anno un po’ in tutto il mondo e non solo tra gli Armeni, alle quali vogliono consociarsi anche i presenti festeggiamenti ravennati, se non le parole dell’antico inno dal quale traspare la gioia inebriante per la luce di Cristo che illuminò la terra d’Armenia e il suo popolo:

Discese l’Unigenito dal Padre e il lume di gloria con Lui,
di ruggiti tuonarono del tartaro gli abissi.

Vista la fulgida luce, esultante ne riferiva
il patriarca Gregorio al re neofita.

Venite, drizziamo alla Luce la sua santa tenda!
In essa infatti ci rifulse il lume, nella nostra Armenia.

Roma, 27 maggio 2001

Indicazioni bibliografiche

Vengono segnalate in prevalenza le opere più facilmente reperibili nelle maggiori biblioteche italiane.

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