L’Islam e gli armeni: esperienze di conflitto e di convivenza
Un messaggio di pregnante attualità nella dialettica “identità-religione-cultura” *
Pubblicato sotto il titolo di “Religione e cultura nell’identità armena. L’impatto col mondo islamico”, in B.L. ZEKIYAN – A. ARSLAN – A. FERRARI, Dal Caucaso al Veneto. Gli Armeni fra Storia e Memoria, Adle Ed.ni, Padova MMIII, pp. 9-35.
*Il presente articolo è la rielaborazione, sulla base di una registrazione trascritta, della relazione tenuta dall’autore alla “Societas Veneta per la storia religiosa” il 16 marzo 2002.
Qualche chiarimento preliminare
È per me motivo di grande soddisfazione essere qui, a questo incontro, per un intervento sull’Armenia e la realtà armena e i suoi rapporti, in particolare, con il mondo islamico, che è anche il tema generale di questo ciclo di conferenze.
È una questione, ovviamente, molto complessa e delicata quella di cui dobbiamo oggi trattare poiché, in seguito anche dei recenti avvenimenti dello scorso settembre, c’è una notevole confusione di idee cui non sfuggono nemmeno tantissime persone dei ceti colti e la conoscenza, perlopiù scarsa, ch’esse hanno del popolo armeno, considerato, giustamente, come il popolo emblematicamente cristiano in mezzo ad un mare/oceano islamico. Ma per questo motivo, appunto, si trova abbastanza diffuso uno stereotipo aprioristico che gli armeni siano per eccellenza il popolo più incompatibile con il mondo musulmano. S’impongono quindi alcuni chiarimenti preliminari.
i. Il primo chiarimento che vorrei fare, e su questo permettetemi d’insistere molto, è di distinguere fra l’Islam tradizionale a partire dal Corano fino agli imperi safavide e ottomano (l’Impero safavide è l’impero della Persia e l’Impero ottomano è quello che conoscono un po’ tutti e che arrivò ad un certo momento fino a Vienna e finì nel 1922/23) da una parte, e il fondamentalismo islamico, aggressivo, oggi in voga dall’altra. Il fondamentalismo islamico oggi, e questa è opinione di illustri islamisti e, in particolare, della scuola di islamistica di Venezia, è un fenomeno legato alla modernità e ai vari tentativi di qualche sintesi tra l’Islam e la modernità. Intanto non va dimenticato che pure l’Islam classico ha qualche radice di derivazione occidentale. Quanto alla modernità, essa costituisce un processo prettamente occidentale, anche a prescindere del tutto dal discorso politico. Sottolineo quest’ultimo inciso, poiché, come sapete, i fondamentalisti islamici hanno quasi sempre goduto, almeno nella fase iniziale di gestazione e dei primi sviluppi, non solo dell’avallo compiacente, bensì dell’effettivo sostegno delle potenze occidentali sul piano strategico-politico-militare. All’indomani del tragico evento delle torri gemelle, un amico americano, personalità di spicco nel proprio ambiente, in risposta alla mia affermazione che nella storia, purtroppo, spesso si raccoglie tristemente quello che è stato spensieratamente seminato, e alla mia retorica domanda: “Chi ha formato, nutrito e fatto crescere i talebani? Chi ha fomentato e sostenuto il movimento khomeinista?”, scriveva con molta onestà: “Adesso capisco”, “Adesso capisco, perché un collega giornalista, tornato dall’Afganistan nell’ ’82, non riusciva a rendersi ragione perché i talebani, che allora combattevano contro l’Unione Sovietica, pregassero ogni giorno per la longevità di Reagan”. Perciò deve essere distinto con assoluta chiarezza e con estrema cautela il moderno fondamentalismo islamico e l’Islam tradizionale: io parlerò soprattutto dell’Islam tradizionale.
ii. Il secondo chiarimento riguarda la questione metodologica: sappiamo che i più grandi spiriti dell’umanità hanno sempre preposto il discorso metodologico a quello dei contenuti: Aristotele prima della sua Metafisica ha scritto l’Organon, Archimede scrisse l’Ephodion, rimasto perso a lungo e recuperato solo agli inizi del ’900; e venendo un po’ più vicino verso i nostri tempi, a parte il Discours de la méthode di Cartesio che inizia la filosofia moderna, sappiamo che, alcuni secoli prima, nel Medioevo maturo, quel gigante della civiltà medievale che fu Tommaso d’Aquino produsse, a soli ventiquattro anni, ciò che è probabilmente il suo capolavoro assoluto, certamente ― penso ― il suo contributo più originale al pensiero: un libriccino intitolato De ente et essentia. L’opuscolo si apre con l’invito a vagliare con somma acribia le procedure logico-argomentative in funzione dei rispettivi contenuti. L’affermazione del giovane Aquinate: “quoniam parvus error in initio, magnus fit in fine…”, vale a dire: un piccolo errore d’inizio diventa grande, diventa una valanga alla fine, suona piuttosto come un oracolo di saggezza, e di sapienza metodologica in particolare. Occorre porre bene, sin dalle prime battute, i principi fondamentali della scienza. Altrimenti vi è il rischio che l’intera costruzione crolli e vada a pezzi. Perciò il discorso metodologico ― il quale è oggi purtroppo sovente assente dalle scuole, persino dalle accademie ed atenei ecclesiastici che in anni ancora non remoti ne furono tra i più devoti cultori ―, è un discorso, di essenziale e fondamentale importanza, su cui non si può “impunemente transigere”, per ricorrere ad una espressione di Silvio Trentin, da lui proferita in merito alle “leggi della libertà” e scolpita all’ingresso dell’Aula Magna di Ca’ Dolfin, a lui dedicata, all’Università Ca’ Foscari di Venezia [1].
Venendo ora al discorso nostro specifico di questa sera, un primo requisito di metodo dovrebbe essere per noi l’equidistanza. Purtroppo succede spesso che scrittori non coinvolti direttamente dal punto di vista etno-culturale e affettivo-sentimentale negli ambiti e problemi religioso-politici e storico-culturali di cui trattano, si mostrino spesso maggiormente di parte e più faziosi che non altri autori provenienti da quei medesimi contesti culturali.
Cercherò di spiegarmi un po’ più chiaramente facendo qualche esempio. Prendiamo il caso della conflittualità armeno-turca in merito al problema del Genocidio subito dal popolo armeno nell’Impero ottomano, durante la Prima guerra mondiale, sotto il Governo del partito dei cosiddetti “Giovani Turchi”; genocidio, a tutt’oggi oggetto di un accanito negazionismo da parte dei vari governi susseguitisi nella Repubblica Turca. Ci sono autori occidentali tra i negazionisti che superano a volte in veemenza di parole e in sofismi argomentativi il negazionismo degli stessi rappresentanti oriundi di parte turca, come ci sono autori sostenenti la realtà e la fattualità del Genocidio, che hanno a volte una foga antiturca che supera persino quella di molti armeni natii e aventi un approccio affettivo-sentimentale o, addirittura, passionale alla questione.
Penso che simili approcci non facciano bene a nessuno. Che si sia nati in un ambito culturale in parte o del tutto coinvolto nel discorso, oppure che si sia nati in un ambito culturalmente ed etnicamente diverso e distante, la prima cosa da fare è quella di mettersi in una disposizione d’animo quieta. Lo diceva un grandissimo apologeta armeno del V secolo, uno dei massimi dell’intera cristianità antica, il vescovo teologo Eznik di Koghb (Kolb/Kołb), nel suo trattato toccante i temi più cruciali di teodicea, dal problema di Dio a quello del male e della libertà di Dio e dell’uomo; trattato giuntoci senza un titolo preciso, noto nella tradizione sotto il titolo convenzionale di Confutazione delle sette, cui però lo specialista più autorevole, il gesuita Louis Mariès, diede il titolo De Deo. Anche Eznik esordisce il suo trattato, analogamente a quanto abbiamo visto fare l’Aquinate sul versante metodologico riguardante la procedura logica, con l’enunciazione, chiara e decisa, di un altro fondamentale principio metodologico il quale riguarda invece l’indole di comportamento cui il soggetto indagante deve adeguarsi: “Quando uno vuol parlare dell’invisibile e della sua eterna potenza, dato che è un essere corporeo, deve fare schiarire la mente, purificare i pensieri, calmare i moti dell’animo, per poter giungere a ciò che si è prefisso. Così, chi vuol guardare verso i raggi del sole, deve rimuovere la sporcizia degli occhi, le impurità e le cispe, onde evitare che i residui, che scintillano intorno alle pupille, divengano un ostacolo al guardare verso la pure luce” [2]. Conseguenza immediata di questa presa di posizione metodologico-comportamentale è quella di poter vedere le cose non da una sola parte, non unilateralmente, non in una visuale ristretta e delimitata da paraocchi.
Vorrei spiegarmi ancora più chiaramente precisando meglio alcuni tratti dell’esempio proposto: c’è una certa storiografia armena che, per l’impatto ― peraltro comprensibile alla luce soprattutto del persistente negazionismo ― dell’effetto terrificante e traumatizzante che il genocidio ha prodotto, non riesce a vedere nel millenario rapporto armeno-turco (ed è durato mille anni almeno sul suolo anatolico) altro che inimicizie, rovine, guerre e disfatta. E questo, mi si permetta, è un approccio unilaterale, inadeguato, poiché la storia non è mai fatta di sole avversità come non è mai fatta di sole armonie. D’altra parte vi è una storiografia turca la quale, per rafforzare le sue posizioni negazionistiche, cerca di descrivere questi rapporti o questo dominio di tribù, di razze turche in Anatolia (in pratica quello dei Selgiuchidi e degli Ottomani che sono stati le tribù più potenti e alla fine vincitrici), quasi come il paradiso terrestre offerto ai popoli dominati, in particolare agli armeni: questi ultimi, conformemente a questa ottica deviante, mai nella loro storia avrebbero avuto una propria statualità di qualche consistenza, mai avrebbero conosciuto momenti di pace e tranquillità, e solo ora finalmente, in seguito all’arrivo dei nuovi dominatori turchi, avrebbe trovato la pace tanto agognata. Una visione questa più che idilliaca, che non ha niente a che fare con la realtà dei fatti. Come diceva, ancora, il vecchio adagio “virtus stat in medio”, c’è dappertutto il bene e il male, il bianco e il nero e non si può ridurre la storia e tanto meno la realtà presente a degli schemi unilaterali di bene e di male, divinizzando o demonizzando indiscriminatamente gli attori della storia, perché nella fattualità e concretezza della storia siamo tutti un po’ demoni e un po’ dei, anche se ― superfluo dirlo ― in modi e a livelli diversi a seconda dei vari momenti storici. I genocidi poi e, senza veruna discriminazione, tutti i genocidi, che veramente siano tali, presentano nella storia ― per quanto sia più che superfluo ripeterlo ―, l’incarnazione del male totale, assoluto [3].
Poli di alterità e di confronto nell’esperienza storica armena [4]
Dopo queste premesse di tipo metodologico, su cui mi sono volutamente dilungato, entriamo ora nel merito proprio del nostro tema. Il rapporto degli Armeni con l’Islam rientra in una categoria socio-antropologica più generale che potremmo definire come il rapporto dell’armeno con l’altro. Questo altro può essere considerato anzitutto da un punto di vista puramente etno-culturale-politico: per esempio l’Impero bizantino era certamente l’altro polo rispetto agli Armeni e lo fu, prima ancora, l’Impero Romano. L’Armenia era pagana, Roma era pagana, ambedue avevano quasi le stesse divinità e soprattutto dopo il sincretismo ellenistico la religione era quasi identica dal Mediterraneo alla Persia, forse fino all’India. Ciò non toglieva però che vi fosse un’alterità, una polarità diversa, e spesso contrapposta.
i. Bisanzio
Lo stesso discorso vale, e a più forte ragione, con quel polo di alterità, della più lunga durata sinora registrata nella storia armena, che fu il cristiano Bisanzio: con esso l’Armenia avrà un rapporto di alta conflittualità. Bisanzio c’interessa da vicino in rapporto al tema che stiamo trattando, in quanto per lunghi secoli esso farà da pendant ai vari domini islamici sull’Armenia e sugli armeni. Anzi, anche se un simile confronto non è direttamente richiesto dallo sviluppo del nostro tema, però non sarà privo d’interesse, anzi potrà perfino essere istruttivo, credo, un confronto tra il dominio bizantino e i vari domini islamici in ciò che caratterizza la sostanza del loro impatto sui destini dell’Armenia e soprattutto sulla millenaria lotta di sopravvivenza del popolo armeno nella propria sua identità etno-culturale-religiosa.
Personalmente penso che il dominio bizantino, sebbene cristiano, sia stato per gli Armeni più oppressivo in confronto dell’Impero persiano sasanide che non poco fece per soggiogare gli armeni non risparmiando mezzi fra l’altro per la loro conversione, anche forzata, al Mazdeismo. Ciò va detto pure in confronto dei vari domini islamici, eccezion fatta per il momento atipico del Genocidio, del Metz Yeghern, nel 1915-16, in quanto fatto unico nel suo genere nella storia più volte millenaria degli Armeni. Rispetto a tutti questi imperi Bisanzio è stato più monopolizzante e maggiormente teso all’assimilazione etno-culturale, appiattente e alla fine annientante. Per di più, data la comunanza di fede cristiana, Bisanzio ha sempre perseguito una politica d’imposizione agli Armeni della propria confessione religiosa calcedonita. Al contrario, i musulmani in genere, passato il momento della furia d’invasione ― spesso, non vi è dubbio, di terribili ed inaudite crudeltà ―, non solo hanno normalmente riconosciuto alle popolazioni cristiane sottomesse il diritto di restare tali, ma anche di professare la fede cristiana secondo la propria specificità confessionale. Essi non avendo infatti Cristo al centro della propria religiosità, seppure lo rispettassero (Cristo è, per loro, il più grande dei profeti dopo Maometto), non erano interessati al fatto, per esempio, se egli avesse una o due nature e ad analoghe dispute confessionali. Mentre tali diverbi sommamente interessavano ai bizantini, non per ultimo come appropriatissimo strumento di egemonia e di assimilazione.
Quanto alla disfatta finale dei regni d’Armenia maggiore, va pure precisato ch’essa fu opera dei Bizantini e non di qualche potere islamico. Nel 1045 i Bizantini si impadronirono di Ani, quella meravigliosa capitale dell’Armenia medioevale, la città detta “dalle mille e una chiesa”, per dolo: perché nel 1043, due anni prima, un enorme esercito bizantino ― le fonti parlano di centomila uomini ― all’assalto della capitale, era stato duramente sconfitto davanti alle sue mura. Quindi si ricorre all’inganno, al dolo vero e proprio sfruttante un alto tradimento, per poter conquistare la ittà. Però, allorché Bisanzio riesce a realizzare totalmente il suo sogno secolare di annettersi l’Armenia, non se la gode se non per appena diciannove anni. Il grande storico francese René Grousset afferma a proposito che la vera fine dell’Impero bizantino non è da collocarsi nel 1453 quando fu conquistata Costantinopoli, ma nel 1071 al momento della terribile disfatta di Mantzikerta, anzi prima ancora, nel 1045, proprio nel momento stesso in cui venne annessa l’Armenia e distrutta la sua indipendenza, poiché veniva soppresso di mezzo quel baluardo, quello Stato-cuscinetto che era il riparo naturale dell’Impero di fronte alle invasioni provenienti dall’est e dal sud. Si trattò quindi, in una parola, di una politica non solo fanatica e repressiva, ma anche bieca e fatalmente miope.
Non vorrei però essere minimamente frainteso in ciò che sto dicendo. È una grandissima civiltà quella di Bisanzio il quale è pure, nel bene e nel male, l’impero più longevo dell’intera storia umana e certamente tra i più grandi da quasi tutti i punti di vista. Ma riconoscere questo, non significa affatto non poter accorgersi criticamente dei suoi innumeri e madornali errori e torti da una parte, e dall’altra restare ossessionati dall’incubo degli altri, dell’Islam in particolare quale fattore o, meglio, unico fattore responsabile delle varie distruzioni avvenute nella storia della nostra oikumene successivamente alla sua comparsa.
Ma neppure sarebbe corretto e leale dimenticare il ruolo, sovente assai triste e codardo, delle potenze occidentali nell’indebolimento dell’Impero bizantino e in alcune sue fatidiche disfatte, sin nella caduta stessa di Costantinopoli, e più in genere nel processo d’impoverimento e di estraniazione dal proprio habitat millenario delle popolazioni cristiane del Medio Oriente: processi che hanno solo contribuito alle ben note avanzate dell’Islam. Ancora una volta la saggezza evangelica rivela l’intera sua veracità ed efficacia: “chi tra di voi è innocente, scagli pure la prima pietra…”. Se qualcuno ha oggi paura di nuove avanzate dell’Islam, della sua forza da poter abbattere nuovi confini, farebbe bene a ricordarsi che tra i fattori primari dei grandi trionfi storici dell’Islam per tutto il Medio Oriente figurano i più che selvaggi sbranamenti dei cristiani, delle potenze cristiane a vicenda. Certo, come si ribatte spesso a questo genere di considerazioni, non è che riconoscendo e rimpiangendo gli errori del passato, si porti rimedio al presente. Ma un simile riconoscimento è non solo utile e salutare, ma credo pure indispensabile, sia per le lezioni da trarne, sia per la saggia prudenza di non dover gravare nessuno dell’intera (sottolineo intera) responsabilità dei disastri in cui ci troviamo coinvolti, in una parola, come già detto prima, di non demonizzare nessuno.
È necessario porre le cose nelle loro proporzioni storiche, inquadrarle nei loro contesti e rapporti storici per poterne giudicare serenamente, senza essere in preda al panico ― sempre pessimo consigliere ― , e quindi con maggiore obiettività, per quanto è possibile. Tale necessità appare poi tanto più urgente quanto più la retorica diventa politica e viceversa, l’iperbole si confonde con la realtà, e ciò ai livelli supremi della gestione politica: così si è potuto parlare di qualche nuova crociata, forse senza nemmeno una comprensione precisa di tale parola da parte di chi oggi voleva predicarla; si è potuto proclamare che la civiltà cristiana fosse superiore a quella islamica, senza porsi la questione che, se gli Arabi e in genere i musulmani non avessero tradotto e trasmesso Aristotele e i Greci nel Medioevo, quali sarebbero potuti essere gli sviluppi immediati e a media distanza dell’Occidente cristiano. Stiamo respirando, anzi ci stiamo immergendo sempre più, in un clima di afflato sentimentale, quasi romantico che ci può far perdere quella indispensabile chiarezza d’intelletto di cui parlava Eznik, il teologo armeno citato del V secolo.
ii. L’Iran sasanide
Riprendendo il discorso dell’alterità, il primo polo che, in tale rapporto, più espressamente e per ben due secoli ― nel IV e V e nei primi decenni del VI ― più fortemente si è contrapposto all’Armenia da quando essa era divenuta cristiana, è l’Iran sasanide. La posizione ideologica degli Armeni di fronte all’Iran fu chiarissima: quando nel 428, con la fine del regno degli Arsacidi, l’Armenia è ormai una specie di governatorato dell’Impero sasanide, gli Armeni non pretendono una autonomia o indipendenza totale assoluta, accettano la sovranità iraniana, ma ad alcune condizioni molto precise. Inizialmente, quando essi si sentono più deboli, cioè intorno al 448/449, in un momento in cui le pretese sasanidi di soggiogare l’Armenia raggiungono il culmine nell’intento della conversione forzata al mazdeismo, con il conseguente rischio per gli Armeni dell’assimilazione totale, anche sul piano etno-culturale, la loro risposta al re sasanide è sostanzialmente questa: “permettici di vivere nella nostra fede e noi ti onoreremo e ti serviremo fedelmente, come abbiamo sinora fatto. Però, se tu insisti che rinneghiamo questa nostra fede, che per noi non è un vestito che possiamo cambiare, ma è come il colore della nostra pelle, allora moriremo, lotteremo fino alla morte però non chineremo la testa”. Posizione chiarissima, affermata con la massima decisione nel 449/450, poco prima della grande resistenza armata di Avarayr che scatterà all’alba della Pentecoste del 2 giugno 451. La battaglia frontale a tutto campo durò un giorno (i due eserciti erano schierati con 300.000 uomini i persiani, tra cui i reparti corazzati dell’epoca, cioè le unità di elefanti, e 66.000 gli armeni), ma senza un esito chiaro di vincitori e vinti. Essa blocco comunque l’avanzata della gigantesca macchina bellica della Persia. Iniziò quindi una lunga fase che potremmo chiamare, nel gergo militare moderno, di guerriglia.
Mi si permetta di nuovo una parentesi. Fu questa, almeno fino al 464, una guerriglia condotta dalle donne cioè dalle principesse rimaste vedove o in attesa dei mariti che furono catturati e portati in esilio nella capitale Ctesifonte e negli interni dell’Impero. Queste vedove e mogli dei sopravvissuti guidarono fino al primo rientro dei principi esiliati, cioè il 464, l’azione di guerriglia con notevole successo. La lotta continuò fino al 485, finché la guerriglia armena ne uscì vittoriosa. Se gli americani, prima di affondarsi nel Vietnam, avessero studiato questa pagina di storia, ― supposto che dalla storia si apprenda, mentre il più spesso niente si apprende ― avrebbero forse fatto una scelta diversa: perché la guerriglia, come vediamo anche oggi in Cecenia, è per un esercito regolare una delle situazioni più difficili in cui combattere, soprattutto quando un popolo conosce il proprio territorio come il palmo della sua mano e crede, a ragione o a torto ― ha poco importanza per l’impatto psicologico ―, in quello che fa. Nel 485 gli Armeni si sentono più forti in confronto della situazione verso metà secolo, e pongono tre condizioni irrinunciabili. Quali sono queste condizioni? La prima è che nessuno debba essere costretto a cambiare religione: questo è qualcosa di molto moderno perché, di per sé, nessuno e nemmeno il mazdeo deve essere costretto a cambiare religione e farsi cristiano, ognuno deve avere il diritto a restare nella religione in cui è nato. Seconda condizione (e questa mi pare di una concezione ancora più moderna): nessuno sarà giudicato in base alla condizione sociale, bensì in conformità alle proprie azioni. Se pensiamo che
oggi stesso, in certi ordinamenti giudiziari, se uno, anche se accusato di crimine, è in grado di sborsare, poniamo, una garanzia di un milione di dollari può uscire dal carcere e circolare a piede libero, possiamo comprendere quale sia il significato di siffatta condizione. Terza: nessun provvedimento sarà preso dall’autorità verso chiunque per sentito dire, ma solo per diretta conoscenza di causa, cioè chiamando la persona in questione a rispondere direttamente delle accuse che le vengono addebitate. Gli Armeni in quel momento considerano queste tre condizioni assolutamente imprescindibili, a costo, dicono espressamente, di riprendere la lotta armata. L’Impero sasanide cede e l’Armenia conosce un periodo di pace di circa 40 anni: uno dei più lunghi periodi di pace e di prosperità nella storia armena.
iii. Gli Arabi
Verso la metà del VII secolo arrivano gli Arabi: è il primo impatto musulmano con la terra armena. La prima incursione araba in Armenia risale al 642, quindi a poco dopo la morte del Profeta e la nascita stessa dell’Islam con l’Egira che avviene nel 622. Le prime incursioni però non ebbero un effetto permanente; come succede spesso, questi incursori si ritirarono. Pare ― non abbiamo una data esatta, sicura ― che l’insediamento del potere arabo nel territorio dell’Armenia maggiore avvenga o verso la fine del VII secolo o agli inizi dell’VIII. Parlando di suolo armeno o Armenia Maior/Armenia Magna, “Armenia Maggiore/Grande Armenia”, come dicevano gli antichi Romani, intendiamo quel pezzo di territorio che si estende dalle sponde orientali del corso superiore del biblico fiume Eufrate sino all’incirca ai territori della Repubblica Armena odierna e un po’ oltre. Questa era l’Armenia, propriamente detta, distinta da quel territorio che dai Greci e Romani veniva chiamata Armenia Minor ed era sita sul versante ovest dell’Eufrate superiore, a nord di Cappadocia e a sud ovest del Ponto. Poi c’era la Georgia ossia l’Iberia e l’Albania caucasica, quest’ultima chiamata anche Arran e, in armeno, Aghuank. Ma gli Arabi, data la prevalenza dell’Armenia in tutto questo territorio subcaucasico (intendendo con questo unica designazione il Caucaso meridionale insieme all’Armenia Magna), hanno chiamato “Arminia” l’intera regione come unità amministrativa, includendovi anche la Georgia e l’Albania caucasica. Questa, per semplificare le cose, ricopriva approssimativamente i territori dell’attuale Repubblica dell’Azerbaigian.
Il dominio arabo registrò, a fasi alterne, atteggiamenti diversi da parte armena. A proposito non si dimentichi quanto ho detto poco fa nei riguardi dell’Impero bizantino. Questo spiega, come mai molti principi armeni abbiano pensato di allearsi con gli Arabi ed abbiano avuto risposte diverse a seconda dei casi (qui ovviamente non possiamo entrare in dettagli storici, perché il tempo ci sfugge inesorabilmente). Quei principi, a volte, forse scelsero male la parte con cui schierarsi. Negli anni 747-50, ad esempio, ci furono nell’Impero arabo fortissimi dissidi interni, lotte intestine, scontri fratricidi. Il principe dell’Armenia, Smbat Bagratuni, si schierò con la parte che ne uscì perdente. E ovviamente pagò caro, lui e i suoi, le conseguenze di tale scelta. È la legge della guerra: se non si arriva ad una intesa, a dimettere le armi, una delle due parti è potenzialmente destinata alla morte. Mors tua, vita mea, suonava l’antico adagio. È inutile, persino ipocrita, ritengo, compiangere la violenza allorché nulla o ben poco si fa per prevenirla ed impedirla legalmente, in base ad un convincente ordinamento giuridico internazionale. Quando la violenza scatta, non ci sono soluzioni multiple. O si smette, o una delle parti deve finire.
La scelta di Smbat si rivelò tatticamente e strategicamente sbagliata. Ma essa sta anche a testimoniare, a dimostrare che non vi era alcun a priori storico, persino in quegli anni intrisi d’invasioni e guerre, di una quasi congenita incompatibilità tra Armeni e Arabi, tra Armeni e musulmani.
Procedendo oltre, nel corso dell’VIII secolo dell’Impero arabo, che vive allora uno dei momenti più prosperi della sua storia, pure in Armenia raggiunge il proprio apogeo. Ma agli inizi del IX secolo gli Armeni, accorgendosi del processo iniziale di un relativo indebolimento dell’unità e compattezza nel mondo arabo, cominciano ad evidenziare delle tendenze crescenti verso l’autonomia. Tali tendenze li porteranno a fondare un regno che sarà riconosciuto ufficialmente dalle superpotenze dell’epoca, cioè da Costantinopoli (Bisanzio) e dal Califfato arabo nell’887. I due imperi si faranno concorrenza per incoronare il principe bagratide Ashot V re d’Armenia, che salirà sul trono col nome di Ashot I, mandandogli in dono ognuno una propria corona. In questo frangente, particolarmente felice per l’Armenia, mentre gli Armeni sono nella logica di rifondazione del proprio regno, è il Califfo che li sostiene. Perché li sostiene? Perché in Armenia i principi arabi locali, che erano chiamati ostikan, cioè una specie di governatori plenipotenziari, cominciavano a diventare i cardini di un potere centrifugo che con crescente impeto si sottraeva al totale controllo del Califfo. In un simile contesto il Califfo vede di buon occhio, con molto gradimento, che qualche potenza possa contrastarli e indebolirli; questa potenza è adesso il principe armeno emergente che poi diventerà re, sostenuto dallo stesso Califfo. E i re armeni, in riconoscimento dell’appoggio del Califfo, il cui significato politico è stato per loro di vitale importanza, non coniarono monete persino al momento di massimo splendore del loro nuovo regno, che segnò uno dei periodi più felici dell’intera storia dell’Armenia tra l’887 e il 1045 con la leggendaria città di Ani come capitale. Infatti il coniar moneta era, allora come oggi, uno dei simboli primari di sovranità e di indipendenza totali. Gli Armeni, con notevole senso diplomatico, con un raffinato tatto politico in questo caso, non coniarono moneta per non suscitare nel Califfo il sospetto ch’essi potessero un giorno rivoltarsi contro di lui.
Bisanzio, all’inizio, guarda tutto questo processo con parecchio sospetto, però, quando vede che non c’è altra scelta, Basilio I il Grande, fondatore della dinastia macedone, la quale peraltro è di origine armena come oggi pare siano d’accordo la maggioranza degli specialisti di storia bizantina, riconosce anche lui la regalità del principe armeno chiamandolo figlio prediletto: il titolo più onorifico che un imperatore bizantino potesse dare ad un sovrano di livello inferiore; e lui pure incorona a sua volta re d’Armenia il principe Ashot come avevano fatto gli Arabi.
Alfine di poter offrire un’idea più concreta di questa, diciamo pure, conflittualità-affinità tra Arabi/musulmani e Armeni, ricorrerei volentieri ad un modello storico molto più vicino e congeniale a codesto uditorio, premettendo, anzi fortemente sottolineando, che ‘conflittualità’ non significa necessariamente ‘incompatibilità’. I conflitti nel mondo, nella storia, sono inevitabili, ma non per questo ogni situazione di conflitto genera fatalmente delle incompatibilità insanabili. L’emerito Patriarca di Venezia il Cardinale Marco Cè, nel suo saluto inaugurale al novello Patriarca Angelo Scola, durante la cerimonia d’intronizzazione sotto la dorata cupola della Basilica marciana, rievocava con molta finezza l’orgoglio civile del popolo veneziano e delle sue istituzioni per cui pur essendo di profonda e radicata fede cattolica, si sono spesso trovati in situazioni di conflittualità con la Sede Romana. Così diceva il Patriarca Cè: “… questa città, così fiera delle sue tradizioni, che è sempre stata cattolicissima, devotissima figlia di Santa Romana Chiesa, ma non ne accettò la sovranità temporale a scapito dei propri interessi di Stato, anzi fu spesso una rivale, una concorrente dello Stato pontificio ….”. Non per questo si dovrebbe, né si potrebbe, parlare d’incompatibilità tra Serenissima e Roma.
Similmente, tra Armeni e Arabi, come tra Armeni e tanti altri popoli in contatto, come fra tutti i popoli in contatto ― giacché conflittualità non vi è, ove contatto non c’è ―, ci sono stati e ci saranno sempre dei conflitti o situazioni di conflittualità, i quali possono avere, però, altre dialettiche di soluzione ovvero altri esiti dialettici che non siano quelli dell’incompatibilità.
Basterà leggere qualche brano dei grandi storici arabi, per convincersi che non d’incompatibilità, ma spesso di alta stima, persino di simpatia fossero il tono e il tenore del loro discorso nei riguardi degli Armeni. Ecco per esempio cosa scrive nel X secolo Ibn Hawqal, uno dei geografi arabi più illustri: “… Là [in Armenia – B.L.Z.] essi producono pure la seta per la vendita all’ingrosso. La loro seta è molto simile a quella del paese dei Romei, benché sia essa più pregevole. Quanto alla loro merce, nota come merce armena, quali sono i grossi tessuti, i divani, le tende, i tappeti stretti e lunghi, i cuscini di pelle per divani, i guanciali, le coperte, non hanno affatto loro simili in qualsiasi parte del mondo” [5]. Una persona, ispirata ad odio e rancore non potrebbe ovviamente tessere un simile elogio. Un’altra testimonianza molto interessante, a mio parere, viene da al-Istakhri, storico arabo pure del X secolo che descrivendo Dwin, la celebre capitale d’Armenia a partire dal V secolo, sita oggi nei confini della Repubblica d’Armenia e chiamata dagli Arabi Dabîl, scrive: “I cristiani vi sono numerosi e la moschea principale si trova accanto alla chiesa” [6]. Vi prego di prestare attenzione, di notare bene quanto dice l’autore musulmano del X secolo: la moschea principale è accanto alla chiesa. Indipendentemente dal fatto che al momento della conquista, una simile costruzione potesse anche essere stata la portatrice di tutti i sintomi di una dimostrazione di forza, una banale esibizione di muscoli, però al momento in cui scrive il nostro autore, un simile atteggiamento sembra ormai acqua passata; almeno dalle sue parole non trapelano astio e disprezzo verso i cristiani del paese di cui sta parlando e di cui dà prova di avere una buona conoscenza. Sorge spontanea la domanda: nei dieci secoli trascorsi da quegli anni in poi quale è stato il cammino dell’umanità per quanto concerne la convivenza interreligiosa? La domanda riguarda indistintamente tutti: musulmani, cristiani, e altri! Possiamo parlare di un progresso su ogni fronte, o si dovrebbe parlare piuttosto di progressi e di regressi in contempo, progressi per certi versi e regressi per altri?
iv. Tra mito e realtà del passato e l’attualità di alcuni messaggi forti
Dobbiamo quindi sfatare il mito, presente in molti di noi, di un Medioevo oscurantista, intollerante e ignorante. Parlo a livello delle grandi comunicazioni tra regioni, culture, uomini. A tal riguardo farò un altro esempio, a mio parere pure molto significativo. Faccio una premessa. Se oggi mi chiedeste: chi è in questo momento il più grande pittore vivente in Tibet? sinceramente non saprei. Pure, venendo verso paesi forse un po’ meno impervi, se mi chiedeste: chi è il più grande pittore o scultore del Canada o del Brasile? dovrei onestamente confessare di non conoscerlo. Vediamo invece cosa succede in pieno Medioevo, e precisamente nel 931: in Armenia, e proprio in quella parte dell’Armenia storica che oggi è la Repubblica Armena, si costruisce, su una rupe scoscesa di circa 1000 metri ― cosa da vertigini e dove salire è ancor oggi un problema ―, quella meraviglia di complesso monastico che il Tathev, tuttora fortunatamente e fortunosamente esistente, uno dei pochi testimoni superstiti fra le tante mille e una chiesa che tappezzavano un tempo il territorio storico dell’Armenia. Sono stato nel Repubblica d’Armenia più di 25 volte e solo una volta ebbi l’opportunità di salire a Tathev. E fatto strano: là ci sono degli affreschi d’ispirazione occidentale che sarebbero per noi un mistero inesplicabile, se non avessimo quell’unica testimonianza dello storico, Stephanos di Siunikh, vescovo della regione a cavallo del XIII e XIV secolo, che racconta: avendo il suo predecessore Hakob sentito della fama dei pittori franchi ― e questi pittori franchi, secondo gli specialisti, o erano della Bassa Bavaria oppure dell’Alta Lombardia, vale a dire: erano o proto-tedeschi o lombardi, proto-italiani ―, li invitò per dipingere le pareti della sua nuova chiesa. Ci rendiamo conto? Siamo ad oltre 3000 km di distanza, non c’è televisione, non c’è stampa, non c’è niente di tutto quanto costituiscono oggi i nostri mezzi d’informazione e comunicazione, e il vescovo di quella lontana diocesi conosce i pittori della Franconia, Lombardia o Baviera che sia, e li chiama nel suo impervio paese per decorarne la nuova chiesa.
Dobbiamo dunque ancora una volta sfatare decisamente un altro ben radicato mito, quello di un Medioevo tutto chiuso. Probabilmente è molto più chiuso il nostro turismo di oggi “tocca e fuggi”, che niente o ben poco capisce di quanto vede intorno. Al turista di oggi basta vedere una parete, uno scorcio di paesaggio, per poter dire che è stato da qualche parte, che si tratti di Roma o Parigi, di Firenze o San Pietroburgo, di Venezia o di New York. È questo al 90%, se non in proporzioni maggiori, il turismo nostrano. Non era così in quei tempi e c’era una comunicabilità molto maggiore tra uomini, culture, paesi, religioni e così via.
Tra i tanti disagi di cui soffre la nostra cultura odierna, un rilievo particolare spetta probabilmente al fatto che spesso confondiamo la tolleranza con la confusione di idee, l’accoglienza dell’altro con il compiacimento ad ogni costo dell’altro, con il continuo rischio di fare il doppio gioco. Forse sto deviando un po’ dal tema: ma un discorso sul rapporto con l’Islam ― e stiamo trattando degli armeni non come di un oggetto musivo, ma come di un modello storico vivo con un messaggio di pregnante attualità ― fa parte di un pacchetto globale riguardante la correlazione con l’altro, il diverso, con peculiare riguardo ovviamente all’alterità e alla diversità religiosa. Di nuovo ricorro ad un esempio per un maggiore chiarimento. Sappiamo che Gesù Cristo ha detto nel Vangelo, almeno così è scritto, non conosciamo le parole esattamente pronunciate: “Questo è il sangue della Nuova Alleanza”. Ci sono oggi dei teologi cristiani che correggono Gesù Cristo e parlano di “seconda Alleanza”. Non so se questo sia veramente un dialogo interreligioso oppure piuttosto un malinteso di fondo del concetto stesso di dialogo. Infatti, primo requisito di qualsiasi dialogo, su qualsiasi piano, è quello di porre in chiaro le rispettive posizioni, quindi le rispettive fedi. Se io sono cristiano, vuol dire che credo, devo credere che Gesù di Nazareth è il Messia atteso ― altrimenti non sono affatto cristiano; se invece sono ebreo, credo che non lo sia, e non posso non credere fermamente che non lo sia affatto. Fra queste due posizioni non c’è alternativa: o Gesù è il Messia o non lo è. È inutile che ci facciamo delle illusioni su Gesù Cristo come pure su altre varie cose. Così pure nel dialogo con l’Islam: o uno crede in Gesù che è il Figlio di Dio, cioè Dio incarnato, Parola eterna del Padre in tutto a lui consustanziale, oppure lo venera come lo venerano tutti i musulmani come un sublime profeta, il più grande tra i profeti fino a Maometto, ma non affatto il Figlio di Dio nel senso di perfetta identità con la natura divina. E di nuovo tra queste due posizioni non datur tertium. Gesù di Nazaret o è per identità Dio o non lo è.
Quindi, se vogliamo rispettarci reciprocamente, pur nella differenza delle nostre fedi, dei nostri credo, è necessario che ognuno sappia e professi di essere quello che è: cristiano il cristiano, musulmano il musulmano, ebreo l’ebreo e così via. Allora sì che possiamo parlarci veramente, e costruttivamente, e non giocare alla farsa né prenderci reciprocamente, anche se forse inconsapevolmente, in giro. Il parlarsi gli uni con gli altri, il dibattito comune, il dialogo vero e proprio non consistono nell’indebito, e in fondo inefficace e fallace, smussamento degli angoli in ciò che costituisce l’essenza stessa delle rispettive fedi. Questo gioco inutile e deleterio una volta non veniva fatto. Certo in quelle epoche non vi era però nemmeno alcun dialogo. C’erano le intolleranze, le persecuzioni, è vero; ma il grande pregio che oggi la nostra cultura, almeno in gran parte, almeno nel nostro Occidente, se ne sia sbarazzato, non significa che ciò ci possa dispensare dal debito e dall’obbligo di chiarezza. Ma ci si chiederà allora: di che e in che e su che si dialogherà, anche in vista di poter raggiungere, è ovvio, qualche comune intesa, qualche posizione condivisa? Se vogliamo esprimerla in poche parole, diremo che tali denominatori comuni possono essere reperiti in infiniti settori e campi, dal sociale all’etico, dal politico all’antropologico-umano, dalla deontologia professionale alla non mercificazione economica, e non per ultimo certo nella religiosità illuminata ed equilibrata, nella fede dei valori superiori e del Valore sommo, nel culto, anche se variamente espresso e praticato, dell’Essere supremo. In una parola: in tutto ciò che il pensiero e la vita offrono ed esigono di vero e di buono, salvo quei punti cardini, in verità pochi, ma che determinano e definiscono la specificità più intima delle varie fedi/religioni.
v. I Turchi
Dopo gli Arabi, il nuovo problema sorge con l’arrivo dei Turchi. Le prime tribù di origine turcica o turanica [7] compaiono in Armenia attorno al 1019. Ma la penetrazione in massa, l’invasione in profondità dell’Anatolia iniziano, come sappiamo con la battaglia di Mantzikerta (Manazkert in armeno, Malazgirt in turco) del 1071. Le armate di Romano Diogene, l’imperatore di Bisanzio, subiscono una sconfitta terribile. Nel giro di pochi decenni l’Anatolia è ormai spalancata davanti ai nuovi padroni turchi.
Di nuovo s’impone lo sfatamento di qualche mito. Si tratta ora del mito dell’incompatibilità ‘congenita’ tra Armeni e Turchi. All’uopo sarà bene ricordare che nelle file di Alp Arslan c’erano molti mercenari armeni combattenti ai suoi fianchi come vi erano degli armeni anche dalla parte di Diogene.
Un noto storico di Bisanzio, Joseph Laurent, che non nutre simpatie per gli Armeni (questo è un suo diritto ovviamente: ognuno, anche lo studioso, è libero di nutrire le proprie simpatie come gradisce, purché non si lasci da esse condizionare), dice che l’atteggiamento degli Armeni, di combattere da mercenari o da volontari nelle file di Alp Arslan, fu la causa della sconfitta di Bisanzio e della consecutiva dominazione dei Turchi in Anatolia. Purtroppo, ancora una volta ci troviamo di fronte a degli approcci unilaterali alquanto esasperati. Va anzitutto considerato che non solo gli Armeni, ma anche i Siri e i Copti, già prima di loro e dell’avvento dei Turchi, avevano aperto le braccia per accogliere gli Arabi. Perché? Perché erano stanchi, nauseati dell’amministrazione ormai marcia dei Bizantini e delle loro ossessioni e repressioni, che fosse per questioni religiose o altre. Una scelta questa, che Siri e Copti hanno pagato alla fine con una forte arabizzazione della loro cultura nella vita quotidiana e profana. L’identità copta e siriaca sopravvissero principalmente come culture religioso-ecclesiale-liturgiche. Non erano quindi senza precedenti nell’ambito delle cristianità periferiche di Bisanzio le alleanze coi nuovi venuti. A parte il fatto che, almeno nel caso armeno, come già accennato, si trattava di una scelta notevolmente circoscritta: ad alcune frangi dell’aristocrazia e dei loro sudditi. Il secondo fattore storico da ricordare, nel dato contesto, è un certo relativo miglioramento delle condizioni generali di vita che, almeno nelle prime fasi del dominio selgiuchide, fu concesso agli Armeni. Lo storico Matteo di Urha (l’antica Edessa), il quale non può certamente essere sospettato, e tanto meno accusato, di ingenue simpatie proturche e pro-chiunque. È un testimone profondamente consapevole e compartecipe delle sofferenze del suo popolo da qualunque parte esse vengano. Ciò non gli impedisce però di tessere l’elogio del figlio di Alp Arslan, Melikshah, quale sovrano benevolo, equo, magnanime, attento verso i cristiani, il quale accolse in udienza il Catholicos armeno per sentirne le richieste sforzandosi in seguito di soddisfarle, fino ad esentare dalle tasse le chiese e le istituzioni religiose [8].
vi. L’Iran safavide
Passiamo oltre, all’Impero safavide. Scià Abbas, il magnifico sovrano di quella dinastia, costrinse all’esilio gli Armeni di molte città armene dopo il parziale insuccesso della sua campagna anti-ottomana. Siamo alla fine del ’500. L’Impero ottomano è all’apogeo della gloria. Tutta l’Anatolia e il Caucaso meridionale fino al Mar Caspio è sotto l’Impero ottomano e lo Scià Abbas fa un ultimo tentativo per recuperare i territori. In parte li recupera, in parte non riesce, e sulla via del ritorno adotta la tattica della terra bruciata: brucia tutto, rade al suolo e fa esiliare la gente, perché l’esercito ottomano non vi trovi niente. Terra maledetta, diremmo, terra bruciata. Non c’è dubbio, è un avvenimento doloroso, dolorosissimo. Pare che 400.000 armeni siano stati estirpati dalle loro terre per essere trapiantati fuori, in esilio, ad Ispahan, nella nuova sontuosa capitale, dove lo Scià Abbas dà a questi armeni esiliati un intero quartiere autonomo, perché vi costruissero, gli concede pieno diritto di commercio, esenzioni dalle tasse e persino li equipara ai musulmani, anzi a volte persino li privilegia, soprassedendo alle disposizioni della Legge islamica che riconosce dei privilegi al musulmano nei riguardi del cristiano. In una causa, ad esempio, secondo la sharī‘a, la legge islamica, la testimonianza di un musulmano vale quella di due cristiani.
Grazie alle doti commerciali ancestrali degli Armeni, quasi proverbiali ― infatti fin dall’antichità remota essi si sono distinti nelle mercanzie ―, l’Impero persiano conobbe una grandissima fioritura commerciale, mercantile ed è questa l’epoca di maggiore splendore del commercio armeno d’intermediazione che ricoprì l’intero orbe antico dalla Cina ad Amstedam e a Londra. A detta di Fernand Braudel, uno dei maggiori studiosi nel ’900 dell’economia mondiale, gli Armeni furono allora i più agili e maggiori commercianti del mondo per quasi cent’anni. A tal segno che per debellarne la potenza economica, ci volle la forza e la rivalità imperiale della più grande potenza politica del momento, il Regno di Sua Maestà, che vide nel commercio degli Armeni una sfida pericolosa al proprio, per cui s’impegnò a tutti i costi a ridurne le dimensioni e la portata. E ovviamente ci riuscì. Se si pensa che la straordinaria fioritura del commercio armeno era in notevole parte dovuta anche ai privilegi concessi da Scià Abbas, si ripropone il problema da che parte stia quel che d’incompatibilità, supposto, non concesso che ve ne sia qualcuna: tra gli Armeni e i Persiani musulmani o gli Armeni e i cristiani britannici? Ma si potrà anche ribaltare la questione: da che parte stia una maggiore tolleranza e lealtà verso l’altro: sulle isole d’Albione o nelle contrade della Mezza Luna?
La soppressione dell’alterità e delle sue dialettiche: la Catastrofe del Genocidio
Veniamo ora, per concludere, alla questione cruciale del Genocidio armeno. Proprio venendo a Padova, sul vaporetto per la stazione di Venezia, ho incontrato un caro amico, giornalista, che non vedevo da cinque-sei anni e gli dissi che andavo a Padova per una conferenza e gli riferii del tema. “Ah, disse, tristi ricordi, tristi memorie!” e toccò ovviamente il dolentissimo tasto del Genocidio. “Ma guarda”, gli risposi, “a mio parere l’Islam c’entra poco con il Genocidio”. E cercai di spiegargli brevemente le ragioni di questa affermazione che quasi certamente sta suscitando pure in voi stupore, perplessità e molteplici quesiti, benché parecchie delle riflessioni sinora fatte possano già spargere su di essi qualche barlume.
Chi commette il genocidio sugli Armeni? È il partito cosiddetto dei Giovani Turchi, noti come “Jeunes Turques” nell’idioma per eccellenza internazionale dell’epoca, e così chiamati perché rappresentavano le nuove, giovani leve dell’Impero ottomano, impegnate in un forsennato sforzo di europeizzazione, diversamente ispirata a modelli francesi e, soprattutto, tedeschi. Formarono il “Comitato”, ossia il partito, denominato di “Unione e Progresso” (Ittihad ve Terakki). Erano imbevuti fino al midollo dell’ideologia moderna occidentale, di stampo prettamente francese nella sua formulazione originaria, dell’ideale illuministico-rivoluzionario dello Stato-nazione.
i. Lo Stato-nazione e la dialettica tra storia e ideologia
Qui tocchiamo un altro tasto molto delicato. Se dobbiamo fare uno Stato-nazione in senso stretto, cioè nel senso vero e proprio del termine, ove esso non ancora esiste, e vi è una molteplicità di etnie e culture gelose della propria identità, una delle vie più semplici, brevi e sicure, per arrivarci può essere quella della pulizia etnica, come la storia degli ultimi duecento anni ci ha ampiamente dimostrato e comprovato. Si tratta ovviamente di un problema enormemente complesso e intricato che non possiamo affatto affrontare ora, in questa sede. Ma non possiamo neppure ignorarlo.
Un’osservazione che s’impone ad un primissimo approccio, è la seguente: è forse casuale che lo Stato-nazione sia stato teorizzato proprio in Francia e non in qualche altro paese europeo, quale ad esempio la Gran Bretagna, sebbene altrettanto e forse ancor più all’avanguardia sullo Stato liberal-costituzionale in quel momento storico? Mi pare che la risposta non sia estremamente difficile a trovare. L’intellighenzia e la classe politica francesi hanno potuto fare il salto qualitativo verso la piena formulazione dello Stato-nazione, perché l’omologazione e l’omogeneizzazione etnica, anzi occorrendo le stesse “pulizie etniche” (adoperando il termine in senso puramente descrittivo e non affatto legale o giuridico, che sarebbe un anacronismo di cattivo gusto), vi erano state accuratamente e in gran parte già effettuate. Quando uno visita Poitiers, non può non restare impressionato da un fatto: vedere che dell’illustre principato dei Lusignan, questa grande dinastia che ha dato dei re fino a Cipro e alla Cilicia armena (la stessa veneta Caterina Cornaro era la sposa dell’ultimo sovrano lusignan di quelle zone), non resta più traccia, nemmeno una pietra, giacché, quando essi alzarono la testa contro il re dell’Ile-de-France, il grande, bonario, ma inclemente Henri IV, questi decretò: “si rada al suolo la loro stirpe e quanto posseggono, che non resti pietra su pietra della loro fortezza, perché tutti vedano che chi solleva la testa contro il re di Francia, farà questa fine”. Ad essere onesti, non è che il metodo di Enrico IV fosse una sua invenzione o suo retaggio esclusivo. Sappiamo tutti che la violenza brutale funse per secoli quale sanzione legale, da parte del più forte, nella soluzione di liti e diverbi. Ma il nodo del discorso sta altrove. Nel fatto che Enrico IV applicava la legge della violenza con la perfetta consapevolezza di forgiare un potere che non era di indole imperiale, plurietnico, multiculturale, cosmopolitico ecc., ma di indole strettamente e prettamente nazionale. Eravamo ad un passo dallo Stato-nazione più puro e rigoroso, se non vi eravamo già addentro pienamente. Questo fatto spiega perché in certo qual senso Francia e Parigi si siano equivalse per secoli e praticamente si equivalgono ancora, nonostante i timidi tentativi degli ultimi governi verso qualche decentramento. E si spiega pure perché la grande Francia, almeno nelle sue parvenze ufficiali, nella sua ideologia dominante, sia notevolmente povera di culture locali, regionali, per non parlare di quelle etniche, in confronto non solo dell’Italia, straordinariamente ricca da questo punto di vista, ma anche di altri grandi paesi europei come la Germania e soprattutto la testé menzionata Gran Bretagna. Negli anni ’70, l’autorevole Le Monde intitolava così un articolo: “Cette culture bretonne que nous avons tuée” (Questa cultura bretone che noi abbiamo uccisa). E penso che qua non si ponga neppure l’ipotesi di un eventuale errore, svista o falsità da parte dell’autore, semmai di una grande apertura di mente e di spirito ― tenendo pure conto dell’ambiente cui si rivolge ―, di una grande envergure, per dirla con una parola quasi intraducibile di quella bella, colta e raffinatissima lingua che è il francese.
Ogni popolo ha il suo percorso storico e ogni percorso per ogni singolo popolo può darsi che sia il migliore; ognuno deve vedere, in proprio, cosa fare, come agire e reagire. Il dramma e la tragedia iniziano quando qualcuno vuole scimmiottare il percorso proprio dell’altro e viceversa quando un qualcuno vuole imporre il proprio percorso agli altri. In base agli sviluppi presi in considerazione, comunque li si valuti, la Francia era dopo la Rivoluzione un Paese prontissimo a praticare lo Stato-nazione nella sua formulazione anche più rigorosa. Non altrettanto lo era, ad esempio, l’Italia la quale probabilmente non lo è neppure oggi, per la straordinaria ricchezza delle sue culture locali e regionali, a volte pari, perfino superiori a quelle di una nazione, di uno Stato. Ho letto da qualche parte, ― quindi riferisco senza assumermene la responsabilità ―, che la Toscana da sola sia più ricca in monumenti artistici e culturali della stessa Spagna, la quale sarebbe, in Europa, dopo l’Italia il Paese più ricco in siffatti monumenti. Comunque sia, l’Italia è un Paese di straordinaria ricchezza di culture regionali le quali rasentano spesso i confini dell’etnicità. È ovvio che un Paese di simile fattura si adeguerebbe male ai requisiti dello Stato-nazione. E difatti, sarà giocoforza convenire che per più di cent’anni il modello importato dall’Oltralpe (si pensi perfino al calco più che semantico, burocratico-amministrativo, della Préfecture francese, la “Prefettura”) non abbia funzionato così egregiamente al di qua delle Alpi, come l’ha potuto invece nella patria di origine. Certamente non è di mia competenza indagare le ragioni storiche di siffatta scelta di cui eminenti specialisti hanno ampiamente dibattuto e continuano a dibattere [9]. Ma se volessimo rivolgerci un’altra volta alla perenne saggezza evangelica, la prima, immediata risposta al perché di tale imperfetta riuscita, pare debba essere ricercata nella parabola del vino nuovo e del vino vecchio e rispettivamente delle otri nuove e delle otri vecchie. Come principio generale, si potrà ben dire che qualsiasi sistema per funzionare con esiti ottimali ha bisogno di essere inserito in un ambiente/contesto/contenitore con cui possa ingranare. Se il contesto non è quello adatto, il sistema non funzionerà, o non funzionerà a sufficienza. Perciò le imitazioni indebite, non adeguatamente preparate, e soprattutto quelle pedisseque ― atteggiamenti che non riescono a capire fino in fondo i meccanismi interni, più profondi che reggono il sistema che si vuol imitare ―, sono destinate a fallire, in parte o del tutto. È quanto sta capitando anche oggi, davanti ai nostri occhi, con l’imitazione pedissequa, servile, di molti stilemi e procedure americani, senza averne penetrato la logica e la dinamica interne in quel dato contesto sociale e culturale. Ma quel che diventa la miscela più esplosiva in assoluto è dato da quanto è successo e sta succedendo in molte frange del mondo islamico con la commistione indiscriminata di categorie occidentali con contenuti oppure con formae mentis islamici tradizionali. Un esempio emblematico di quanto stiamo dicendo sono appunto i fondamentalismi, oggi tanto in voga. Ed è qualcosa di analogo ciò che è pure successo coi Giovani Turchi, soprattutto per il cinico sfruttamento che hanno fatto del sentimento religioso popolare ai propri fini ideologico-politici. Torniamo quindi ai Giovani Turchi e al loro operato.
ii. L’ideologia giovane-turca: un ‘fondamentalismo’ musulmano di stampo laico
Per dirla in breve, i Giovani Turchi ambivano riformare e rifondare l’Impero, considerato da decenni il “malato” d’Europa; erano quasi ossessionati dall’idea di questa riforma e rifondazione che dovrebbe inglobare, come limite ideale, tutte le popolazioni di ceppo turcico, sul modello di uno Stato-nazione occidentale. Ideale e ideologia noti generalmente sotto il nome di “panturchismo” o di “panturanesimo”. Gli Armeni erano un ostacolo, anzi l’ostacolo principale, su questa via. Ma in tutto ciò l’Islam non c’entra direttamente, se non come pretesto e quale strumento di sfruttamento ideologico.
Per 700 anni il teocratico e islamico Impero ottomano non aveva concepito un’idea simile. Uno degli ultimi sultani, Abdülhamit II, noto nella storia occidentale anche come il Sultano Rosso, contro il quale i partiti e i partigiani armeni avevano lottato nel 1908 assieme ai Giovani Turchi per debellarlo, non aveva ideato durante il lungo suo regno di più trenta anni un progetto di sterminio dell’intera nazione armena, cioè della nazione armena come tale. Infatti, da buon islamico, non poteva esattamente pensare la nazione come categoria o entità universale, per includervi un intero popolo, indipendentemente dalle determinazioni concrete, storiche, religiose, locali e sociali, in cui quella entità si verificava a seconda delle varie contingenze incombenti. Con lui ci furono, infatti, diverse repressioni/rappresaglie, ma di carattere locale. Certo, erano di gran lunga sproporzionate alla portata dei movimenti irredentisti, a questi superiori a volte non solo in proporzione del doppio o del triplo, ma anche oltre; dinamica questa, caratteristica assai delle misure repressive. Resta però il fatto che il Sultano “rosso” non concepì mai l’idea di uno sterminio totale. Gli mancava infatti il concetto occidentale di nazione, come la categoria occidentale dell’universalità. La stessa legge islamica di per sé non è eguale per tutti. Infatti nei grandi imperi classici dell’Islam, dagli Arabi agli Ottomani e ai Safavidi, la sharī‘a islamica valeva solo per i musulmani. I sudditi di altre religioni erano invece tenuti ― e tra i cristiani ogni singola comunità secondo le proprie norme e tradizioni ― a seguire la propria legge, riconosciuta e sancita dal Sovrano. Per questo motivo dicevo che il fondamentalismo islamico è fenomeno radicalmente occidentale, perché solo l’Occidente e soprattutto l’Occidente post-kantiano, illuminista, sviluppò una concezione, quasi astratta, della forma universale e, quindi, della legge come categoria universale al di là di ogni contingenza del momento. Al contrario, nell’ordinamento coranico e nell’Islam classico in genere la legge è comunitaria. Così ad esempio a Costantinopoli/Konstantaniye [10], capitale dell’Impero, a nessuna donna cristiana era imposto di coprirsi il volto come fu imposto, invece, nell’Iran di Khomeini, ispirato ad un fondamentalismo decisamente di stampo moderno. Parlo in particolare della capitale, in quanto la copertura del velo era praticato da molte donne nelle regioni interne dell’Impero piuttosto per motivi di sicurezza personale che non come il requisito di un obbligo legale.
Personalmente sono convinto che il genocidio armeno non c’entri con l’Islam, se non come mezzo e strumento di sfruttamento per sollevare le popolazioni ignoranti e volutamente fanaticizzate con appropriate propagande, contro il presunto nemico. A tal fine furono adoperati soprattutto i ceti meno nobili della società, come banditi e assassini scarcerati e raggruppati in apposite formazioni. Ogni religione può essere sfruttato ai fini più meschini della politica o di qualsiasi altro interesse, e nella storia le religioni furono effettivamente sfruttate, non per ultimo anche come criterio di discriminazione. Infatti la povera gente, il povero contadino o il bandito, a volte analfabeti, che ne sapranno dello Stato-nazione o della sharī‘a, della legge o dell’etnia? A loro si dice semplicemente quello è il nemico da eliminare; si montano le motivazioni. E il metodo funziona. Se il nemico è additato, supponiamo, nell’armeno cristiano, come fu nel nostro caso, diventa allora riconoscibile assai facilmente e vi sono due soluzioni: o si salva la pelle islamizzandosi, per cui perde praticamente la sua identità non solo religiosa ma anche etno-culturale o viene effettivamente eliminato. È la perdita dell’identità, cioè della propria alterità, come alternativa all’eliminazione, l’obiettivo fondamentale che interessa in genere i governi, e interessava nel caso particolare i Giovani Turchi. Islamizzazione, in ultima analisi, finì per significare turchizzazione in senso etnico [11]. Non possiamo dimenticare in questo contesto che lo Sheikh-ül-Islam, una delle autorità supreme dell’Islam ottomano, si era opposto alla decisione di deportazione dell’intera nazione armena considerandola contraria alla legge del Corano. Se vi sono dei colpevoli o rei, avrebbe detto, puniteli! Ma non potete punire tutto un popolo [12].
Tutto ciò, penso che possa trovare una definizione aderente se diciamo che l’ideologia dei Giovani Turchi è: a) un fondamentalismo, per la sua esasperazione, pur nella coerenza interna, della categoria di Stato-nazione; b) è un fondamentalismo musulmano, in quanto condotto da un gruppo di musulmani e ideato per una popolazione musulmana, ma soprattutto per lo sfruttamento spregiudicato della religione e religiosità islamiche; c) è però un fondamentalismo di stampo laico in quanto i suoi contenuti fondamentali sono dettati non dalla sharī‘a, ma da ideologie di estrazione moderna, occidentale, laica.
Dai modelli del passato verso le speranze e le sfide del futuro
Una tradizione fa risalire l’istituzione del Patriarcato armeno di Gerusalemme a Maometto. Negli archivi del millenario monastero armeno di San Giacomo del Patriarcato in Terra Santa è gelosamente custodito l’atto di quella istituzione in pergamena, attribuita alla mano del Profeta. Si tratta ovviamente di leggenda. Resta pur tuttavia il fatto che il Patriarcato armeno di Gerusalemme si è sviluppato sotto il potere dei Sultani musulmani, ha vissuto quasi l’intera sua esistenza, sino a pochi decenni fa, all’ombra, il più spesso benevola, di quel medesimo potere sotto il quale ha pure conosciuto i momenti di maggiore splendore della sua lunga storia.
Io però vorrei oggi leggervi, prima di por fine all mie parole, un altro testo, non del Profeta, ma di un Sultano musulmano, il Sultano ottomano Abdül Mecit, che al tempo stesso era rivestito della dignità di Califfo, la suprema autorità religiosa nel mondo musulmano. Il testo che è un berat imperiale col Tuğra del Sultano e risale al 1849 [13], è indirizzato alla Congregazione Mechitarista la cui Casa madre è sita nell’Isola di San Lazzaro in Laguna a Venezia ed è a tutt’oggi conservato negli archivi dell’Ordine. Avendo oggi tra noi presente in persona il Reverendissimo Abate Generale della Congregazione Mechitarista, P. Elia Kilaghbian, vorrei che la lettura di questo testo, la cui motivazione è espressa a chiare lettere nel suo tenore e formulazione, fosse anche un nostro omaggio alla secolare benemerita attività religiosa, educativa, culturale della Congregazione, riconosciuta e premiata con tanta solennità dal Sultano. Sentiamolo per intero:
“Tuğra. Abdülmecit figlio di Mahmud Han, Vittorioso sempre. Del segno d’onore della sublime gloria dell’eccelsa dimora imperiale e dello splendido Tuğra dominatore del mondo questo è il giudizio sovrano: Essendo i religiosi armeni cattolici, residenti nel Monastero sito nella città di Venezia, fin dall’inizio sudditi fedeli del mio sublime potere ed essendo pervenuta alla mia magnifica conoscenza notizia certa del loro impegno nell’opera d’istruzione, di educazione e di ammaestramento nella rettitudine dei loro correligionari sudditi del mio eccelso impero, viene disposto e rilasciato questo berat della Maestà in segno assoluto ed esclusivo della donazione ed elargizione a detto Monastero da parte della mia onorata regalità di una immagine della Maestà mia, di un Tuğra e di un vessillo. Scritto alla metà del mese di marzo dell’anno mille duecento sessantacinque, nella residenza ufficiale della capitale Konstataniye”.
Il significato di queste parole è di una eloquenza tale che ogni commento sarebbe superfluo. Faccio solo rilevare che i religiosi lodati appartengono ad un Ordine non solo cristiano, ma anche sito al di fuori dei confini dell’Impero. La seconda osservazione che vorrei fare, per un’ulteriore riflessione, è semplicemente una domanda, anche se solo retorica: possiamo immaginarci che dalle cancellerie di Napoleone III o di Pio IX o di qualsiasi Imperatore, sovrano o Papa dell’Ottocento ─ per restare intanto entro i limiti cronologici del modello proposto ─ potesse emanare una bolla simile, in elogio di imam o religiosi musulmani per la loro opera di ammaestramento dei loro correligionari, eventuali sudditi delle autorità chiamate in causa? Credo che l’unica risposta onesta non possa essere che negativa.
Sono questa e simili le domande le quali, per quanto retoriche possano sembrare, non possono non porre alla nostra coscienza di uomini occidentali, oggi, più che quesiti, delle vere e proprie sfide epocali, se ripensiamo serenamente a tutte le analisi sinora fatte, e a quel fatto, in particolare, tremendo e orribile che l’Occidente reca pure una grande e gravissima parte di responsabilità e di complicità, sia sul piano meramente ideologico sia su quello prettamente politico, nella nascita ed esplosione, almeno nelle fasi iniziali, dei vari fondamentalismi islamici, mosso spesso da motivazioni più che bieche, come ad esempio quella di erigere un baluardo incrollabile contro l’Impero sovietico, sbagliando miopemente tutti i calcoli tattici e strategici. Ma soprattutto senza neppure badare ai dettami della più elementare saggezza popolare che chi infantilmente gioca col fuoco, finisce per bruciarsi e la barba e la casa. La storia degli ultimi dieci-quindici anni è una conferma sufficiente di come la nostra casa abbia già preso fuoco e di come, nel panico di spegnerlo, accumuliamo piuttosto errore su errori che non ad altro servono se non ad attizzarlo. Purtroppo, non è che già domani mieteremo quel che oggi stiamo seminando a piene mani. Dico purtroppo: poiché se i risultati degli errori fossero immediatamente trasparenti, ci comporteremmo probabilmente con molto minore sconsideratezza. Il dramma è che la storia ha pure i suoi tempi: le fatali conseguenze degli errori commessi a partire dagli anni cinquanta, nel fomentare e sostenere i fondamentalismi, hanno cominciato ad essere percepibili solo a partire dagli anni Ottanta…
Tornando ai quesiti e alle sfide cui ho appena accennato, non vorrei comunque esserne frainteso, nel senso di aver voluto instaurare un raffronto tra Islam e Occidente per dire che il primo sia stato più tollerante nel corso dei secoli passati, come è consuetudine ─ e lo era più diffusamente in un passato ancora assai recente ─ in certi circoli occidentali. Credo che simili paragoni, da chiunque vengano instaurati, cristiani, musulmani, atei o agnostici, siano altrettanto trappole per non percepire i veri nodi dei problemi e trastullarsi perdendo tempo in storicismi surrettizi o nebulose metafisicherie. Tanto la civiltà dell’Islam, nelle sue varie forme da una scuola di pensiero all’altra, da impero a impero, quanto quella del mondo cristiano [14] dall’antichità fino al moderno attraverso il Medioevo con le sue indefinite varanti, pur nelle reciproche e intense interazioni, sono fenomeni a se stanti, nel bene e nel male, con logiche e dinamiche interne assai diverse, per cui difficilmente commensurabili in base a comuni denominatori i quali per poter servire da parametri di confronto, devono per forza essere astratti dalla realtà storica contestuale concreta col rischio di sfasamenti e sviste gravi. Entrambe le civiltà hanno sviluppato nel corso dei secoli vantaggi e svantaggi, virtù e vizi. Nell’ambito stesso della tolleranza, meglio del rispetto dell’altro, da certi punti di vista e a seconda di epoche e circostanze è l’Islam che ha offerto una migliore prova di sé, come da altri punti di vista e in altri tempi e contesti è il mondo cristiano che dato il meglio di sé. La parabola storica è estremamente complessa e sarebbe oltreché ingenuo e metodologicamente sbagliato, pure sprovveduto di una base seria, volerla ridurre ad equazioni matematiche.
Per concludere, vorrei rilanciare la problematica venutasi a creare nella modernità con l’emergere e il prevalere dello Stato-nazione, additando un’eventuale prospettiva in cui si possa anche aprire un sentiero per uscire dalle impasse in quelle situazioni complesse le quali più di una volta condussero a soluzioni catastrofiche. Una prospettiva che è al tempo stesso una domanda di fondo su che cosa possa essere la sfida del terzo millennio. Parlo di millenni, perché la visuale da cui stiamo osservando, ci pone veramente su livelli di millenni. Infatti, lo Stato-nazione s’impone nell’epoca moderna come il frutto di una evoluzione che in Europa parte col secondo millennio e matura attraverso le tante vicissitudini di cui l’Europa occidentale e alcune sue regioni in particolare diventano il teatro privilegiato. Quanto all’ordine imperiale in atto nei domini islamici, esso si ricollega in qualche modo all’idea e ideologia imperiale che aveva raggiunto nell’antica Roma la sua piena formulazione e avrebbe dominato la scena dell’intero primo millennio in Europa e nel Medio Oriente. Sarebbe da chiedersi allora se una sintesi tra quello che potremmo chiamare l’ordine imperiale, nelle sue varie modulazioni da Roma all’Islam e agli imperi occidentali più recenti, e quello che potremmo chiamare l’ordine repubblicano, tipico dello Stato-nazione, sia mai possibile; se sia un’utopia pensarla e il proporla o un sogno.
L’ordine repubblicano, lo Stato-nazione ci ha portato un bene inestimabile: i diritti del singolo individuo, della persona. Se in questo momento siamo qui radunati, senza censura, con la possibilità di parlare e di dire quello che pensiamo, lo dobbiamo senza l’ombra di dubbio alla tradizione occidentale della cosiddetta democrazia parlamentare, sancita dello Stato-nazione, coi relativi diritti dell’uomo. E questo è sacrosanto. E deve essere salvato e salvaguardato ad ogni costo. Però vi è anche l’altra facciata della medaglia: in questo ordinamento si rischia di perdere la dimensione comunitaria.
Ed ecco che c’è allora il modello dell’ordine imperiale, proposta in modo esemplarmente emblematico dell’antica Roma. Ricordiamoci di San Paolo: orgoglioso del suo essere ebreo, anzi sfidante chiunque di non esserlo in maniera menomata rispetto a nessuno. Circonciso l’ottavo giorno, ebreo da ebrei, perseguitava la Chiesa di Dio per il suo zelo della Legge, la Legge che ha formato e forgiato appunto il popolo ebraico. Ma allorché il centurione dà ordine di flagellarlo, egli dirompe aspro e sicuro: “Tu fai flagellare un cittadino romano?”, e il centurione, impaurito: “Non sapevo che tu lo fossi”; e quasi per scusarsi, aggiunge: “questa cittadinanza me la sono conquistato a caro prezzo”; allora San Paolo trionfante ribatte: “Io vi sono nato”. Pensate, il cittadino romano, come ha fatto San Paolo stesso, da qualsiasi angolo dell’Impero, aveva il diritto di fare appello al Cesare. In quale democrazia odierna a quale cittadino è riconosciuto un simile diritto?
Non va dimenticato che anche gli imperi islamici si sono ispirati in qualche modo al modello romano. L’Impero ottomano poi si pone in un certo qual senso nella tradizione storica e ideale dell’Impero bizantino, che era sostanzialmente una imperialità romana. Gli Arabi hanno sempre chiamato i bizantini Rûm “romei” e fino ad oggi quei tremila residui superstiti greci dell’odierna Istanbul non chiamano se stessi “elleni” o “greci”, ma “romei” e la propria lingua, cioè il greco moderno che parlano “romeikà”.
Se lo Stato-nazione, la Repubblica esalta e salva l’individuo, ma perde di vista la dimensione etno-comunitaria, l’ordine imperiale al contrario, inclusi gli imperi e gli ordinamenti islamici, riconosce e salva quest’ultima dimensione, manca però, nel suo assetto classico, di tutto quel complesso dei diritti personali che sta alla base delle democrazie moderne.
La questione e la grande sfida che ci stanno dinanzi sono: sarà mai possibile la conciliazione, la sintesi viva dei due sistemi? Ecco perché ho parlato su scala di millenni, benché mi spiaccia veramente. Ma è un dato di fatto purtroppo che partiti dall’antica Roma si è arrivati allo Stato moderno nel corso di quasi due millenni, e ciò ancora per una parte dell’umanità che resta ancora minoritaria. E l’eventualità di una sintesi non è che illumini ─ va constatato con enorme rammarico ─ l’orizzonte dei tempi che in questi giorni stiamo vivendo!
Speriamo che non si debba aspettare altri mille anni, se non per arrivare, almeno per abbozzare una sintesi.
Note al testo
[1] Cfr. Riflessioni sulla crisi e la rivoluzione, 1933, rist. in Opera scelte, Marsilio 1985, p. 121.
[2] EZNIK DI KOLB, Confutazione delle sette (Ełc Alandoc‘), Introduzione, traduzione e note a cura di Alessandro ORENGO, (Progetti linguistici, collana diretta da Riccardo AMBROSINI, 2), Ed.ni ETS, Pisa 1996, pp. 39.
[3] Sulla delicata e dibattuta questione della cosiddetta “unicità” della Shoa, l’Olocausto del popolo ebreo, e rispettivamente della “unicità” di ogni genocidio e tragedia umana, mi permetto di rinviare al mio intervento al Convegno Internazionale sui Giusti “Sì può sempre dire un sì o un no” tenutosi a Padova nel 2001: “Riflessioni sulla trasposizione semantica del concetto di «giusto» nel contesto del «Metz Yeghern» armeno”, in Si può sempre dire un sì o un no: I Giusti contro i Genocidi degli Armeni e degli Ebrei, Convegno Internazionale, Padova, 30 novembre-2 dicembre 2000. Atti, Comitato per la Foresta Mondiale dei Giusti, CLEUP, Padova 2001, pp. 211-240 (in part. pp. 216-226) – trad. ingl. “Reflections on the Semantic Transposition of the Concept of the «Righteous» to the Context of the Armenian «Metz Yeghern»”, in There is Always an Option to Say «Yes» or «No». The Righteous Against the Genocides of Armenians and Jews, International Conference, Padua, November 30 – December 2, 2000, CLEUP, Padua, 2001, pp. 216-243 (220-226).
[4] Per una visione panoramica e un approfondimento degli eventi e della storia cui si alluderà nelle righe e pagine successive, consiglierei le seguenti opere, facilmente reperibili: AA. VV., Gli Armeni, Jaca Book, Milano 1986; edizioni nello stesso anno anche in francese (Payot), inglese (New York Rizzoli), tedesco (Belser Verl.) – varie ristampe si sono susseguite delle edizioni francese e inglese presso altri editori; B.L. ZEKIYAN, L’Armenia e gli armeni. Polis lacerata e patria spirituale: la sfida di una sopravvivenza, Guerini e Associati, Milano 2000; Storia degli Armeni, a cura di Gérard DÉDÉYAN, ed. italiana a cura di Antonia Arslan e Boghos Levon Zekiyan, Guerini e Ass., Milano 2002.
[5] Citato da Nina GARSOIAN, in Storia degli Armeni, a cura di Gérard Dédéyan, ed. italiana a cura di Antonia Arslan e Boghos Levon Zekiyan, Guerini e Ass., Milano 2002, cap. VI: “L’indipendenza ritrovata: Regno del Nord e Regno del Sud”, p. 188; si veda pure A. TER-GHEWONDYAN, The Arab Emirates in Bagratid Armenia, translated by N.G. GARSOIAN, Lisbon 1976, p. 138.
[6] Citato in Joseph LAURENT, L’Arménie entre Byzance et l’Islam depuis la conquête arabe jusqu’en 886, nouvelle édition revue et mise à jour par M. CANARD, Librairie Bertrand, Lisbonne, 1980, “Traductions de textes d’auteurs”, p. 515.
[7] Adopero queste espressioni per la necessaria distinzione tra il livello etnico, da una parte, e il livello ‘razziale’ in senso lato, cioè di stirpe, di ceppo, dall’altra. Perciò l’etnonimo ‘turco’ indica la realtà etnica venutasi a formare sul suolo anatolico in seguito all’insediamento ivi di tribù di ceppo turco-altaico, in pratica i turchi selgiuchidi e ottomani e i loro discendenti della Repubblica turca, mentre il termine ‘turcico’ indicherebbe le comuni origini remote delle popolazioni turco-altaiche quali, ad esempio, i kazaki, kirgizi, uyguri, turkmeni ecc. Lo stesso dicasi dell’aggettivo “turanico”. Tur-an è etimologicamente la forma iranica di plurale (in –an) dell’etnonimo “turco” (dalla radice tur).
[8] Storia, parte II, par. 129, 134. Un ampio florilegio della Storia di Matteo esiste in versione francese, ad opera dell’armenista francese, Edouard Dulaurier, nella collana Documents des Croisades: Documents Arméniens.
[9] Pur nella concisa brevità, mi pare offrire al riguardo parecchio materiale di riflessione il saggio di Sergio ROMANO, Finis Italiae. Declino e morte dell’ideologia risorgimentale. Perché gli Italiani si disprezzano, All’Insegna del Pesce d’oro, Vanni Scheiwiller, Milano 1999.
[10] Tale restò la denominazione ufficiale della città ─ Konstantaniye nella forma ottomana ─ per l’intera durata dell’impero ottomano. Fu solo dopo la fondazione della Repubblica che nel contesto di una politica generale di turchizzazione dei toponimi, essa fu cambiata nel ‘volgare’ Istanbul la cui assai probabile origine greca pare sia sfuggita all’attenzione del legislatore.
[11] Oggi si conteranno tra la popolazione della Repubblica Turca più di un milione di individui armeni turchizzati per scampare alla morte negli anni del Genocidio. A questa cifra si arriva supponendo intorno ai 200mila i rinnegati di quel momento (pari a quasi un decimo della popolazione armena dell’Impero). Se si considera che la popolazione complessiva del paese si è più che quintuplicata nel corso dei trascorsi ottanta anni dalla Fondazione della Repubblica nel 1923, già si supera il milione.
[12] Cfr. B.L. ZEKIYAN, L’Armenia e gli armeni. Polis lacerata e patria spirituale: la sfida di una sopravvivenza, Guerini e Associati, Milano 2000.
[13] Berat: termine di origine araba che significa bolla, decreto. Tuğra (Tughra): l’emblema del Sultano con cui venivano intestati i berat più importanti e che figurava pure su una delle facce delle monete.
[14] Preferisco parlare di civiltà “del mondo cristiano” e non di “civiltà cristiana” tout court per l’effettiva distanza che il “mondo cristiano”, almeno post-constantiniano ha quasi sempre segnato nella sua impostazione socio-politica rispetto all’Evangelo, all’Evangelo sine glossa per dirla con Francesco d’Assisi.
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