Ararat: racconto di tre notti insonni
Ararat, un nome che suona antico, lontano, eppure familiare. Tutti l’hanno udito una volta o l’altra, ma dubito che la maggior parte delle persone sappia di preciso di che si tratti. E a bene vedere è un luogo che non ha un solo nome, ma ben cinque. Ararat, o più correntemente Masìs, è chiamato dagli Armeni. Per i Curdi, il popolo che vive attualmente nei dintorni del vulcano, è Çiyayê Agirî, la Montagna Infuocata (l’ultima eruzione è del 1840). In turco è Büyük Ağri Daği, Grande Montagna del Dolore (nome che suona sinistro per chi desidera salirvi). Per i Persiani è Kūh-e Nūh, Monte di Noè. Già, perché non vi è forse altra montagna al mondo altrettanto incrostata di leggende (celebre la storia dell’Arca) e significati, in primis per il popolo armeno, per il quale il monte, anticamente sede degli dèi, è il riferimento geografico e simbolico da almeno venticinque secoli. Ed è un monte di tutto rispetto: bianco, isolato, e svettante su un vasto altopiano. Quasi isolato in realtà, visto che ha un gemello minore (Piccolo Ararat, Piccola Montagna del Dolore, ecc.) che sfiora i 4000 metri (per il cono principale, invece, la quota più spesso riportata è 5137 metri).
Ciò che segue è quanto ricordo di una vecchia salita alla cima, in un agosto di una decina di anni fa. Salimmo dal versante sud, lungo la via normale che parte dalla cittadina curda di Bazîd (Doğubeyazıt nella toponomastica secondo lo stato turco). Il mio ricordo più vivido di Bazîd è la notte insonne sofferta in albergo prima della partenza, troppo eccitato dall’idea di salire sull’Ararat per poter sperare di chiudere occhio.
Primo giorno
La marcia di salita al monte Ararat comincia….su ruota. Infatti, dai 1600 metri di Bazîd una strada sterrata si inerpica, sempre più generosa di buche, fin ben sopra i 2000. Smontati, comincia una piacevole camminata, in salita poco faticosa, fino al campo 1 a circa 3000 metri di altitudine. La giornata è soleggiata, la temperatura è dolce e lo zaino è leggero (i muli delle guide curde si occupano di trasportare tende e vettovaglie). A questa quota la montagna è verde e ancora popolata: si incontrano degli attendamenti di pastori, e dappertutto vagano greggi di capre e cani da pastore. Il campo 1 è un vasto pianoro erboso percorso da ruscelli, l’ultimo prima che la pendenza del versante si faccia più severa.
Al calare della sera, colpisce (anche fisicamente) il brusco precipitare della temperatura. È un fenomeno insolito e un po’ inquietante per noi che viviamo in aree ricche di vegetazione e dal clima non troppo continentale. Quella che poco prima era una conca inondata di sole (siamo in pieno versante sud) diventa una fredda desolazione. Non che la temperatura sia davvero così rigida: è il cambiamento repentino che coglie alla sprovvista. Fortuna che uno spiedo ruotante su un falò acceso dalle guide tiene caldi stomaco e spirito. E quando il falò si spegne, si accende il firmamento. Ricordo pochi spettacoli celesti paragonabili a quello offertoci dall’Ararat. Non che le costellazioni visibili siano altre da quelle che siamo soliti osservare nelle nostre estati (siamo a 39° 42′ N, più o meno la stessa latitudine di Cosenza, e i pochi gradi di differenza si notano appena), ma il cielo è così nero, e dunque le stelle così chiare, come in Europa è raramente dato vedere. Splendono nitide anche le costellazioni minori, e un’infinità di dettagli che nei nostri cieli sono quasi sempre cancellati dalla foschia o dall’inquinamento luminoso. E la Via Lattea scorre chiarissima dal Cigno all’Aquila, e giù fino al Sagittario, a meridione. Saranno le tante cose viste oggi, sarà la disabitudine alla tenda, ma per la seconda notte consecutiva non chiudo occhio.
Secondo giorno
Come la prima, anche la seconda giornata non è particolarmente impegnativa. Si tratta di salire 1000 metri di dislivello (o poco più), dal campo 1, sui 3000 metri, al campo 2, sui 4000 circa. Il cammino è un po’ più faticoso perché la pendenza è maggiore di ieri, ma niente di difficile. Quello che colpisce è il cambiamento di colore: ieri il verde, oggi il grigio. I prati hanno lasciato il posto a una lunga e monotona pietraia, che il sentiero risale a zigzag. Uno di noi dà segni di malessere. Ieri sera è stato sorpreso dal brusco crollo della temperatura, e questa sera starà male, per cui domani dovrà purtroppo rinunciare alla vetta. Si guadagna quota, e se prima anche il Piccolo Ararat svettava sopra di noi, ora gli si può dare del tu. Si arriva abbastanza rapidamente al campo 2: questo non un vasto spazio erboso, ma una pietraia dove si piantano le tende alla bell’e meglio, curandosi di non stare troppo scomodi. Si passa il pomeriggio a guardare verso l’alto, un po’ preoccupati, la pila complicata di roccia, ghiaccio, e innumerevoli sassi che è la parte sommitale del vulcano. Una cascata d’acqua di fusione precipita da un ghiacciaio sullo sfascio sottostante.
Verso l’ora del tramonto, forme giallastre vagano per la piana arida di Bazîd. E’ il vento che danza laggiù, e gonfia cortine di polvere. Stasera nessuno ha voglia di godersi la stellata: il posto è sassoso e scomodo, il freddo pungente. L’aria è mossa e inquieta. Il campo è sorpreso da un temporale breve e surreale: la copertura del cielo resta leggera, ma arrivano, non si sa bene da dove, rovesci di pioggia gelida e grandine, in un turbinio di folate di un vento che non sa decidersi da dove, né verso dove, spirare. Col buio ci si ficca nelle tende sperando di riposare, ma il desiderio è più che mai vano: il fondo di pietraia è spigoloso e bitorzoluto, e soprattutto il vento ha finalmente deciso da che parte soffiare, e ulula con entusiasmo. Le tende si gonfiano come vele. Io e il mio compagno di lòculo ci guardiamo più di una volta perplessi e irrigiditi. Non scambiamo parola, ma il cervello secerne l’ immagine di una palla confusa di tela, stecche metalliche e membra umane che rotola giù per i ghiaioni. Anche uscire dalla tenda per sgravare la vescica si trasforma in un’avventura emozionante.
Terzo giorno
Vorrei poter cominciare con le parole “Al risveglio…” ma non posso, in quanto non c’è stato, nemmeno stavolta, un minuto di sonno. All’ora stabilita le guide curde ci svegliano (si fa per dire) e annunciano: “We have a wind problem”. In effetti non si può dar loro torto. In base al piano A (non esiste nessun piano B), in caso di “wind problem” si aspetta un’ora per verificare se il problema persiste, poi un’altra ora. Dopo un paio d’ore si parte comunque. E così avviene. E’ ancora buio fondo, e ci si incammina su in fila indiana con le torce frontali. Un persona del gruppo è costretta rinunciare quasi subito per via del mal di montagna (gli altri raggiungeranno tutti la vetta). Della monotona salita nel buio ricordo pochi dettagli, se non la concentrazione e la fatica, causate non tanto dalla difficoltà o dalla quota, quanto dalle folate implacabili. Alle luci dell’aurora ci si imbatte in un’iscrizione che indica che si è raggiunta la quota della cima del Monte Bianco. Ormai si sta facendo chiaro, e sta per cominciare il tratto ghiacciato della salita: gli ultimi 300 metri di dislivello sul cupolone glaciale. Sull’ultimo placcone roccioso ci sediamo per calzare i ramponi, operazione molto più faticosa del consueto per via del vento che non ha pietà di noi: quasi impossibile anche solo scambiarsi due parole. Anche il tratto glaciale della salita non presenta particolari difficoltà o pericoli: si usano i ramponi ma non è necessaria la piccozza, né di solito ci si lega in cordata. Anzi, in quest’ultimo tratto il gruppo si disunisce, e ognuno sale col passo che le proprie forze e il proprio allenamento gli consentono. Solo nel primo tratto bisogna camminare a rispettosa distanza da un baratro che si spalanca sulla destra, ma presto la pendenza si fa più dolce, ed eccoci sul tetto dell’Armenia: una vasta area bianca, percorsa da dolci ondulazioni. Due di queste svettano sulle altre: quella a destra è la cima. Un’ultima rampa nevosa, e ci siamo. Non c’è nulla, se non un palo piantato di traverso con qualche brandello di stoffa. E, sopratutto, il Nulla è sopra di noi e intorno a noi. Sulle vette delle Alpi, si è comunque circondati da un’infinità di profili di monti. Qui, da nulla. Infatti le montagne alte più vicine, e cioè il Grande Caucaso, distano centinaia di chilometri. Per cui non si vedono altre cime, se non il cono scuro del Piccolo Ararat, 1200 metri più in basso. Tutt’intorno si indovina appena l’altopiano al di sotto della coltre di foschia giallastra. Siamo un’isola sopra uno spazio vasto e indeterminato.
La maggior fatica della giornata, però, ci attende ancora: in discesa non sono previsti bivacchi, per cui tocca percorrere in un’unica tirata i 3000 metri di dislivello compiuti nei tre giorni di salita. La discesa al campo 2 è in fondo ancora piacevole: ci si gode la soddisfazione della vetta raggiunta, e scendere dove il vento non è più così furioso diventa un piacere fisico. Ma al campo 2 c’è ben poco tempo per riposarsi o congratularsi: tocca smontare le tende e seguire a rotta di collo le guide giù per il ravaneto. Diversamente dalla cadenza da processione religiosa della salita, il passo di queste ultime in discesa è spietato: evidentemente hanno fretta di organizzare la salita del giorno successivo con altri clienti. Stiamo loro dietro a fatica e con un certo malumore. Il campo 1, gli accampamenti dei pastori, le greggi passano via veloci nella marcia forzata. A una cert’ora del pomeriggio si ritrova il pullmino che ballonzolando ci riporta a Bazîd. Buttarsi sulla prima branda disponibile e affondare nell’incoscienza sono la medesima azione.
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