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Agop Manoukian

intervistato da Massimo Rolandi

Massimo Rolandi

Lei è figlio di un armeno di Cilicia scampato, bambino, ai massacri del 1909 nell’area di Adana. Come è stato per Lei, crescendo, venire in contatto con la storia della propria famiglia e, in un certo senso, ricostruire la propria identità? 

Il mio accostamento alla storia armena è iniziato attraverso i racconti delle vicende che nell’aprile del 1909 hanno portato mio nonno a fuggire improvvisamente da Adana con i quattro figli, tra cui mio padre, abbandonando ogni proprietà ed avere. La famiglia viveva a Mersina, che all’epoca era un piccolo villaggio, ora è una città di un milione di abitanti. Mio nonno era un commerciante.

La nostra famiglia, come in genere gli armeni di Cilicia, intratteneva rapporti del tutto normali e pacifici con le altre etnie e minoranze dell’Impero Ottomano. Nel 1908 molti armeni, soprattutto nella comunità di Istanbul, avevano accolto con entusiasmo le apparenti aperture dei Giovani Turchi verso le minoranze: ci si illudeva che presto gli armeni non sarebbero più stati considerati, nel quadro dell’impero, un popolo di serie B. I massacri e l’incendio del quartiere armeno di Adana del 1909 arrivarono quindi totalmente inattesi. La vita cambiò in modo improvviso e definitivo. La nostra famiglia fuggì lasciandosi tutto alle spalle: dapprima a Cipro, quindi in Egitto, e infine nella  Trieste austro-ungarica. Mio padre non tornò mai più nei luoghi dove era nato.  Per quanto mi riguarda l’accostamento al mondo armeno è stato graduale: dapprima la conoscenza della microstoria familiare, quindi la partecipazione alla vita e alle iniziative della comunità armena in Italia ed infine il vero e proprio studio della storia del  popolo.

Che ruolo ha svolto l’Italia nell’accogliere le popolazioni armene scampate al Metz Yeghérn? Come furono accolte? Come si organizzarono le comunità trapiantate?

Si è trattato di un ruolo circoscritto ma importante. Circoscritto perché il flusso degli scampati al genocidio si è principalmente indirizzato verso paesi più aperti all’immigrazione: in Europa la Francia, e nelle Americhe gli Usa, il Canada e l’Argentina. Importante perché l’Italia ha accolto diverse centinaia di orfani che grazie all’assistenza e alla formazione ricevuta si sono più facilmente inseriti nel mondo del lavoro sia italiano che straniero. In questo ha avuto il suo peso la presenza della congregazione mechitarista a Venezia, che svolgeva il ruolo di un importante cenacolo culturale (aveva prodotto, ad esempio, il primo dizionario completo di lingua armena). Fin dal secolo precedente, infatti, aveva attirato a Venezia molti giovani, un buon numero dei quali si erano fermati a vivere in Italia. Alla fine del secolo si era poi aggiunto un secondo flusso: quello degli orfani scampati ai massacri hamidiani e non solo. Tuttavia si possono citare anche altri episodi. Penso alla quindicina di bambini ospitati dal parroco di Recanati, che chiamò due mechitaristi per la loro istruzione, oppure alle 400 orfanelle ospitate dal Papa prima a Castelgandolfo e in seguito a Torino. Oppure al caso di Bari, dove un intellettuale, Hrand Nazariantz,  fuggito da Istanbul nel 1913, si adoperò per ospitare decine di famiglie armene con cui diede il via ad una produzione di  tappeti orientali.

Come si venne a sapere, dalle nostre parti, del genocidio? Quand’è che si cominciò realmente a parlarne? Per merito di chi?

Non è del tutto vero che in Italia non si sapesse dei massacri. Dal 1878, con il congresso di Berlino, la questione armena si internazionalizza e l’Italia diplomatica ha una finestra aperta su quanto avviene in Anatolia: testimoni sono le migliaia di documenti diplomatici custoditi nell’archivio del ministero degli esteri italiano.  I documenti che coprono l’arco 1890-1923 sono stati pubblicati in ben 10 volumi. Sui massacri hamidiani, che si svolgono tra il 1890 e il 1895, in Italia arrivano frammentarie informazioni confermate dalla narrazione più argomentata e documentata curata dal diplomatico Errico Vitto (con lo pseudonimo Anatolio Latino) sui massacri di Zeitun.

 Nei primissimi anni del secolo XX i movimenti socialisti e pacifisti italiani partecipano al movimento di solidarietà internazionale nei confronti degli armeni. In particolare, è importante il ruolo di Ernesto Teodoro Moneta che nel 1903 organizza in un teatro milanese un convegno cui aderiscono molti intellettuali e politici come Turati, Lombroso, Salvemini, Luzzatti ecc. Per gli anni successivi l’informazione su quanto avviene nell’Impero Ottomano, anche se frammentaria, è sicuramente notevole e trova appoggio in una serie di comitati di sostegno e di solidarietà che restano in vita per almeno il quinquennio che va da 1915 al 1919 (a Torino si pubblica addirittura, dal ‘15 al ‘18, una rivista chiamata “Armenia”). La speranza (e illusione) diffusa in quegli anni è che la Russia, in quanto paese cristiano, avrebbe sostenuto e garantito l’indipendenza e la pace dell’Armenia.

 Quali testi letterari consiglierebbe a chi si volesse fare una prima idea della letteratura armena moderna, e di come in questa traspaiono le vicende della storia del vostro popolo?

Penso innanzitutto a tre testi scritti in tempi assai vicini al realizzarsi del genocidio e alla formazione della grande diaspora. Tre testi tradotti in Italia assai tempestivamente.  Il primo e più famoso è I quaranta giorni del Mussa Dagh, di Franz Werfel (1935). Come racconta l’autore stesso, l’impulso a scrivere il romanzo gli venne dalla vista delle condizioni di vita miserabili degli orfani armeni che lavoravano in una fabbrica di tappeti a Damasco. Il secondo è Che ve ne sembra dell’America?, di William Saroyan (1940). I suoi brevi racconti sono molto significativi per dare un quadro della condizione degli armeni che si erano appena inseriti nelle società ospiti: in questo caso gli USA. Infine, Chiedo a voi signori e signore, di Leon Surmelian (Frassinelli, ed.1947) la cosa che più amo di questo libro è la puntuale ricostruzione della storia di un bimbo armeno che a nove anni si trova senza genitori vittime del genocidio. Il racconto di come egli riesce a salvarsi e ad inserirsi in una società straniera non è solo autobiografia ma descrizione del difficile formarsi della prima  repubblica d’Armenia e di una  diaspora armena allo stato nascente.