Jacopo Santini
intervistato da Massimo Rolandi

La prima domanda, inevitabile per tutti i nostri ospiti non di origine armena è…come è scattato, nel tuo caso, l’interesse per questa cultura così antica e di cui in Italia si parla così poco? Quale esperienza personale fu, nel tuo caso, galeotta?
Si tratta di un interesse di antica data, nato dalla passione per la storia di mio padre, dalla lettura di Werfel (I Quaranta Giorni del Mussa Dagh) e da un viaggio in Libano per un progetto. Trovandomi nel vecchio quartiere Armeno di Beirut venni a sapere che mi trovavo a pochi distanza da un orfanotrofio del Near East Relief in cui vennero ospitati orfani sopravvissuti al genocidio resi ciechi da acqua infetta. L’ultimo di loro era morto poco prima del mio arrivo, così mi fu detto. Quella storia non mi ha più lasciato.

Dopo la mostra fotografica dell’anno scorso sei tornato in Armenia. Quali sensazioni e riflessioni ti sei portato a casa? Hai fatto nuovi incontri particolarmente interessanti?
Mi sono trattenuto più a lungo in quest’occasione, un mese, con base a Yerevan e spostamenti in Tavush, Sunik, Lori. Più tempo, più storie e più occasioni di rapporti profondi, grazie soprattutto a Shushan Martirosyan, la migliore guida (o fixer) che io possa immaginare. Ho conosciuto discendenti di reduci (ma chi non lo è) in possesso di diari vecchi sessant’anni, una giovane vedova e una madre che ha perso un figlio diciottenne, tanto dolore e altrettanta dignità e forza. Ho costeggiato i confini con la Turchia da Armavir a Gyümri, poi a Goris e nel Tavush, a Koti, nei pressi dei confini con l’Azerbaijan. Ho potuto contare sul sostegno di ONG come COAF, cui già devo gratitudine per l’aiuto assicuratomi in passato.
Quanto è stato determinante il ruolo della fotografia (parlo soprattutto del corpus documentario lasciatoci da Armin Wegner) nel testimoniare il genocidio? Cosa sapremmo oggi del Metz Yeghérn se non ci fosse stata la documentazione fotografica?
Si dice, giustamente, che Metz Yegern è il primo evento di portata storica (soprattutto il primo genocidio) a poter contare su una documentazione fotografica eloquente, fra l’altro realizzata da un esponente militare di una nazione alleata della Turchia. Molte di quelle immagini sono diventate icone e corrono purtroppo il rischio legato a questo status, quello di divenire mute perché ubique. Se non ci fossero – è ovvio – qualcuno, come se molti già non lo facessero, non perderebbe l’occasione di sostenere che mancano prove dell’avvenuto. Ma la fotografia ha da tempo perso il rango della prova indiscutibile.
A tuo avviso, come è segnata oggi l’identità armena dalla memoria del genocidio? E come è segnata l’identità turca dalla negazione del medesimo?
L’identità Armena è più che segnata, è definita dal genocidio, non tanto perché sia in corso un culto forzato dell’evento, quanto perché le sue condizioni geopolitiche, la minaccia continua di Turchia e Azerbaijan e, forse più di ogni altro motivo, il ruolo ambiguo e predatorio della Russia che tratta l’Armenia come un qualsiasi oblast, imponendole un ruolo tributario e asservito in economia e politica, condizionano ogni scelta rendendo incertissimo il futuro. L’Armenia è in ogni parte del suo esiguo territorio un confine pulsante e a rischio ed è una pena vedere l’ipocrita disinteresse dell’occidente cui inspiegabilmente gli Armeni continuano a credere, con pazienza.
Quanto alla Turchia, il genocidio, o meglio la rimozione della sua memoria, la negazione ostinata sono a loro volta un potentissimo fattore identitario che mina alla radice le fondamenta già fragili del paese. Di fatto la negazione del genocidio o addirittura l’addebito agli Armeni di ogni responsabilità sono dogmi di stato ripetuti ad nauseam nei libri di scuola e nelle (rare) discussioni pubbliche sull’argomento da cent’anni. Ribaltare questa posizione e riconoscere improvvisamente le responsabilità per Metz Yegern significa dire ai turchi: “Vi abbiamo mentito per cent’anni, i padri della patria erano assassini e i vostri antenati hanno approfittato allegramente del massacro e dello spossessamento di un’etnia che – a proposito, anche questo ci eravamo dimenticato di dirvi – viveva qui secoli prima della nostra irruzione dall steppe dell’Asia centrale.” Significa dover rimuovere monumenti e targhe intitolate a Talaat Pasha, a Enver Pasha, a Çemal Pasha e agli altri di Ittihad Ve Terakki. Inutile attendersi che un turco medio reagisca con misura. Eppure esiste una generazione (urbana, acculturata, aggiornata e incline al cosmopolitismo) che è consapevole della fragilità di una situazione del genere. La rappresenta benissimo Taner Akçam, storico turco, fra i primi a riconoscere apertamente genocidio e responsabilità turche, autore di testi fondamentali e di uno in particolare, Nazionalismo Turco e Genocidio Armeno, che spiega con estrema chiarezza e onestà il problema psicologico del turco medio e della Turchia come paese. Con questi – con grande pazienza – occorrerà parlare, anche per mettere fine al genocidio della memoria, alla progressiva cancellazione del ricordo che, con la complicità di un occidente ignorante e cinico, rischia di far piazza pulita di ogni buona intenzione.
Quali progetti hai per il futuro? Tornerai in Armenia o nelle zone limitrofe?
Tornerò certamente in Armenia, anche se ora è in corso la fase “turca” del progetto. Dopo i molti stop dovuti a pandemia e guerra in Ucraina, spero di poter partire tra giugno e luglio, al più tardi in Agosto, ma sarò questa volta in Anatolia, Van, Diyarbakir, Erzurum, perché è lì che è avvenuto tutto.